EACS 2015 - Secondo Bollettino

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EACS 2015LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della 15a Conferenza Europea sull'Aids (EACS 2015), che si terrà a Barcellona dal 21 al 24 ottobre 2015.

 

SECONDO BOLLETTINO

Quando la PrEP anche in Europa?
Stanno aumentando le pressioni da parte delle associazioni e della popolazione generale affinché la profilassi pre-esposizione (PrEP) divenga disponibile anche in Europa, dove gli organismi finanziatori e gli enti regolatori continuano a non esprimersi in merito; nel frattempo, il rischio è che cresca ulteriormente l'uso informale della PrEP, è stato detto alla Conferenza
Negli Stati Uniti, l'impiego profilattico del Truvada (tenofovir ed emtricitabina) è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 2012 e nel 2014 sono state pubblicate le linee guida nazionali sull'uso della PrEP. In Europa, invece, non sono attualmente previsti stanziamenti di fondi per la PrEP da parte dei governi nazionali o regionali: il suo impiego al di fuori dei trial clinici resta limitato a singoli accordi tra medico e paziente, a prescrizioni ottenute da istituti privati al di fuori del sistema sanitario pubblico, oppure all'uso informale senza adeguato controllo medico.
Cresce però a ritmo sempre più rapido la domanda 'dal basso' della PrEP attraverso i social network, e questo significa che una parte sempre più importante del lavoro delle associazioni consisterà nel fare in modo che l'uso informale della PrEP sia sicuro ed efficace.
L'introduzione ufficiale della PrEP come elemento integralmente finanziato nei programmi nazionali di prevenzione HIV in Europa è ancora ai blocchi di partenza, anche in paesi dove la ricerca in questo campo è molto attiva, come Francia e Regno Unito. Alla Conferenza è stato spiegato che giungere a un approccio condiviso a livello europeo sarà tutt'altro che semplice, data l'eterogeneità dei sistemi sanitari e dei meccanismi di finanziamento vigenti nei vari paesi del continente.
Anche laddove esistono già le infrastrutture necessarie a far avere la PrEP a coloro che ne hanno bisogno, sussistono ostacoli di natura normativa e barriere ai finanziamenti che continuano a impedire l'accesso alla PrEP; per molti paesi il problema più grande resta quello dei costi.
Sebbene sia comprovato che, in determinate circostanze, la PrEP ha un ottimo rapporto costi/benefici, gli organismi finanziatori continuano a tergiversare.
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L'inizio precoce della ART tra benefici assodati e interrogativi ancora da risolvere
L'annoso dibattito su quando sia più opportuno iniziare la terapia antiretrovirale (ART) ha finalmente trovato risposte definitive, ha dichiarato il professor Jens Lundgren alla Conferenza; ciò nonostante, "il capitolo della sicurezza dei farmaci nella medicina dell'HIV non è ancora chiuso."
Nei mesi scorsi, con lo studio START si è stabilito che il rischio di malattia e morte è minore se la ART viene iniziata immediatamente dopo la diagnosi dell'infezione da HIV, anziché attendere che i CD4 scendano sotto le 350 copie/ml. Questi risultati stanno già avendo ripercussioni sul piano pratico: le ultime linee guida sul trattamento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità  e un numero crescente di linee guida nazionali raccomandano adesso che venga iniziata la terapia in tutti i pazienti a cui viene diagnosticata l'infezione, a prescindere dalla conta dei CD4.
Restano tuttavia degli interrogativi da sciogliere, per esempio sugli effetti a lungo termine di un'esposizione ai farmaci antiretrovirali che si prolunga per decenni. I partecipanti allo studio START saranno seguiti per almeno altri due anni – e si spera anche per altri cinque/dieci anni – per conoscere più a fondo gli effetti a lungo termine dell'inizio precoce della terapia.
Altri studi hanno infatti evidenziato un aumento dei tassi di malattie cardiovascolari e tumori nei pazienti HIV-positivi, e lo stesso START ha riscontrato un rischio più alto di malattie e decessi non-AIDS-correlati in pazienti con livelli di CD4 elevati che non assumevano la ART. Restano ancora poco conosciuti anche i meccanismi alla base delle co-morbidità come le malattie cardiovascolari e i tumori nei pazienti HIV-positivi, su cui comunque possono senz'altro incidere fattori come il persistente stato di immunoattivazione e infiammazione, eventuali tossicità ancora non note degli antiretrovirali e i tradizionali fattori di rischio.
Oltre a questi interrogativi scientifici per ora senza risposta, restano da affrontare varie questioni relative alle politiche da adottare per far sì che la terapia antiretrovirale sia disponibile per chiunque sia affetto dal virus dell'HIV in tutto il mondo.
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Migranti HIV-positivi in Europa, la maggior parte contrae l'infezione nel paese ospitante
Uno studio presentato alla Conferenza ha riscontrato che la maggior parte dei migranti HIV-positivi che vivono in Europa, quando la diagnosi non risale a più di cinque anni fa, hanno probabilmente contratto l'infezione non già nel loro paese d'origine, ma in quello in cui sono migrati.
A queste conclusioni è giunto lo studio aMASE (Advancing Migrant Access to Health Services in Europe), condotto su 2249 migranti che vivevano in nove diversi paesi europei.
Sono molte le persone HIV-positive che non sanno con certezza quando hanno contratto il virus. Nello studio, tramite un questionario, è stato chiesto ai partecipanti dove e quando hanno ricevuto la diagnosi e se avevano tenuto comportamenti a rischio – ed eventualmente quali – prima e dopo essere migrati; i ricercatori hanno anche chiesto l'autorizzazione a contattare il centro medico dove era stata formulata la diagnosi per intervistare separatamente il medico, confermare la diagnosi e individuare la probabile data dell'infezione.
È risultato che una percentuale maggiore dei partecipanti aveva sicuramente o probabilmente contratto l'HIV dopo essere migrati nel paese europeo (o in vari paesi europei), rispetto a chi l'aveva contratto prima di lasciare il paese d'origine.Un elemento importante di cui tener conto è che per una significativa minoranza di individui (nel caso dei migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana, ben il 48%) non è stato possibile stabilire la data d'infezione. Ciò nonostante, i dati sono impressionanti: in particolare tra gli MSM (uomini che fanno sesso con uomini), la stragrande maggioranza ha contratto il virus nel paese ospitante e non in quello di origine.
Débora Álvarez del Arco, presentando i risultati, ha spiegato che, oltre agli MSM, ad avere la più alta probabilità di aver contratto il virus dopo la migrazione erano, secondo i dati, i migranti provenienti da Europa occidentale, Sudamerica e regioni caraibiche. La ricercatrice ha lanciato un appello, a cui si sono uniti anche molti dei presenti, perché si approfondisca la questione della vulnerabilità dei migranti all'infezione da HIV nei paesi ospitanti.
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Impiego del dolutegravir in duplice e in monoterapia
L'inibitore dell'integrasi dolutegravir (Tivicay) assunto in combinazione con un singolo NRTI ben tollerato, è risultato in grado di azzerare la carica virale nei pazienti che iniziavano per la prima volta la terapia antiretrovirale (ART); assunto da solo, invece, ha mostrato di riuscire a sopprimere il virus nella maggior parte dei pazienti con pregressa esperienza terapeutica che intraprendevano la terapia con carica virale ancora irrilevabile. Questi i risultati di una serie di studi presentati alla Conferenza.
Le persone affette dall'infezione da HIV, attualmente, hanno ancora davanti a loro decenni di terapia; la ricerca sta dunque cercando di mettere a punto regimi più tollerabili, meno complessi e più facili da assumere, ma ugualmente efficaci nell'abbattere la carica virale.
Gran parte dei regimi antiretrovirali consistono in una combinazione di almeno tre agenti farmacologici di due o più classi diverse. In alcuni regimi, questi agenti sono combinati in un'unica compressa da prendere una volta al giorno, il che semplifica notevolmente il trattamento per molte persone.
Si tratta di nuovi approcci alla ART che possono risultare particolarmente congeniali a chi ha assunto in passato molti farmaci diversi e ha un ceppo di virus farmacoresistente, e a coloro che mal tollerano gli eventuali effetti collaterali dei farmaci.
In Argentina è stata sperimentata la somministrazione di una combinazione di dolutegravir e lamivudina in un piccolo studio condotto su 20 individui (19 uomini e una donna), nessuno dei quali aveva precedentemente assunto il trattamento per l'HIV. All'inizio dello studio, la viremia mediana era di poco superiore alle 24.000 copie/ml – sebbene quattro dei partecipanti avessero valori superiori alle 100.000 copie/ml – e la conta dei CD4 si aggirava sui 400.
Tutti i partecipanti hanno assunto 50mg di dolutegravir più 300mg di lamivudina, una volta al giorno, per 48 settimane. Pedro Cahn ha presentato i risultati dell'analisi a 24 settimane, da cui si evidenziava un rapido decremento della carica virale dopo l'inizio della terapia. Alla terza settimana, tutti i partecipanti erano scesi al di sotto delle 400 copie/ml, e sotto le 50 copie/ml dall'ottava in poi.
Due studi indipendenti condotti in Spagna e Francia hanno invece preso in considerazione l'impiego del dolutegravir in monoterapia (ossia assunto da solo) in pazienti che avevano già raggiunto l'abbattimento della carica virale in terapia.
A Barcellona, i partecipanti erano 33 pazienti (di cui oltre la metà erano donne) che non avevano precedenti noti di fallimento virologico né mostravano segni di resistenza agli inibitori dell'integrasi. 24 settimane dopo essere passati dai regimi precedenti al trattamento con dolutegravir, tutti tranne uno avevano mantenuto soppressa la carica virale.
A Parigi è stato condotto uno studio simile su 28 pazienti (di cui oltre la metà uomini) con carica virale non rilevabile in terapia. A 24 settimane dallo switch terapeutico, l'89% dei partecipanti (25 su 28) avevano mantenuto la soppressione virale. I tre che non erano riusciti a mantenerla l'hanno comunque riconquistata aggiungendo al proprio regime una combinazione di tenofovir ed emtricitabina. Tutti e tre questi pazienti avevano già assunto inibitori dell'integrasi in passato e presentavano mutazioni resistenti a questa classe di farmaci.
Dopo le presentazioni, sono intervenuti diversi specialisti portando argomenti a favore o contro la semplificazione dei regimi, alcuni sottolineando i benefici di questa strategia, altri evidenziandone i rischi.
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