Il grande punto di domanda, che riguarda tutta la popolazione in via d’invecchiamento, con o senza HIV, è: questi anni di vita “guadagnati” saranno o no, anni di buona qualità della vita?
Per l’Italia lo scenario mostra segnali contrastanti. Il nostro paese è, infatti, uno dei più longevi con un’attesa di vita più alta dell’1% rispetto alla media europea. Qualità della vita e stato generale di salute e benessere sono invece più bassi rispetto alla media del vecchio continente, soprattutto tra gli ultraottantenni e soprattutto tra le donne. Riportiamo solo un dato, quello concernente le affezioni motorie: in Italia ne soffre il 23,1% degli anziani e delle anziane, il 2% in più del resto d’Europa.
Tra le possibili cause di questa fragilità italiana ci sono innanzitutto alcuni fattori socio-ambientali: ad esempio la maggiore vulnerabilità sociale delle donne, le forti carenze della sanità extra-ospedaliera, una qualità della vita generalmente più bassa, condizionata anche da una più diffusa condizione di povertà, fattori tanto più significativi per persone con patologie croniche e/o che subiscono isolamento e stigma sociale come quelle con infezione da HIV.
Il livello d’integrazione sociale, l’organizzazione sanitaria, la qualità dei servizi di prevenzione e cura sono dunque elementi fondamentali per poter fruire di un invecchiamento in salute. La stessa OMS definisce l’aspettativa di vita attiva e in salute, ossia libera da disabilità , non come assenza di patologie ma come capacità di far fronte alla vita quotidiana con un buon livello di autonomia e di qualità della vita. L’OMS ha creato per questo uno specifico “misuratore”, l’indice HLY, Healty Life Years, che misura gli anni di vita trascorsi in salute. L’Unione Europea si è posta l’obiettivo di aumentare di due anni, entro il 2020, il livello di HLY. Al momento gli uomini europei hanno un’aspettativa di vita in salute pari al 79% della loro intera vita mentre per le donne la stessa percentuale scende al 74% nonostante vivano in media più a lungo, un dato che riflette, come già detto, una condizione sociale decisamente più svantaggiata della popolazione femminile. Tra i paesi dell’Unione si riscontrano ovviamente livelli molto differenti.
Come si misurano la fragilità delle persone e le loro “traiettorie” d’invecchiamento? Ne ha parlato nella sua relazione il dott Davide De Francesco, UCL, Insititute for Global Helath di Londra, presentando un possibile modello dell’evoluzione geriatrica della popolazione con HIV nel 2030.
L’età anagrafica non è un indice adeguato a descrivere lo stato di salute -ha spiegato- poiché non tutte le persone alla stessa età sperimentano le stesse condizioni di benessere o di patologie. Il termine fragilità (frailty) dunque si riferisce all’età biologica più che cronologica. Per “misurarla” esistono diversi indici (FI, Frailty index) che vanno a quantificare il rischio di eventi avversi basati sull’accumulo di deficit della salute. Soddisfacente si è rivelato l’indice elaborato dalla Clinica Metabolica di Modena, specifico per i/le pazienti con HIV, che misura la percentuale di vulnerabilità correlate all’età su un elenco di 37 (perdita di peso e di massa muscolare, debolezza, difficoltà motorie, limitazioni sensoriali ecc) e la multimorbidità ossia la presenza di tre o più patologie su un elenco di nove (ipertensione, diabete, malattie cardiovascolari, colesterolo, malattia polmonare ostruttiva cronica, malattia renale cronica, fratture, cirrosi, cancro).
Le proiezioni svolte sulla corte della clinica metabolica di Modena stimano che per il 2030 il 38% dei pazienti con HIV avrà più di sessantacinque anni (dal 4% del 2015) e che con l’età, come avviene per tutta la popolazione generale, aumenteranno anche fragilità e multimorbidità con percentuali del 30%. Si va dunque delineando, senz’altro, uno scenario di HIV geriatrico. Tuttavia il modello prevede anche che l’indice di fragilità si vada comprimendo sempre più verso le fasce d’età avanzate avvicinando l’esordio delle patologie correlate all’età, ai livelli della popolazione generale. Secondo tale modello dunque, se nel 2015 l’indice di rischio di sviluppare fragilità tra i cinquantenni con HIV era del 26%, nel 2030 tale indice scenderà al 6,5% per alzarsi invece intorno ai settantacinque o più anni.
Tra i fattori che contribuiscono a questo fenomeno, ossia alla progressiva normalizzazione dell’esordio delle patologie geriatriche nella popolazione con HIV, De Francesco ha indicato: il tempo trascorso senza infezione da HIV ma, soprattutto, il mantenimento e il recupero di un buon livello di CD4 e la tempestività nell’inizio delle terapie ART. Queste evidenze dimostrano inoltre la necessità di un approccio multidisciplinare e olistico nella cura e nell’assistenza dell’HIV mutuabile dalla medicina geriatrica.
Altro modello volto a misurare l’età biologica di un individuo è “l’Intrinsec Capacity”, evoluzione del concetto di frality. Ne ha parlato nella sua relazione il prof. Matteo Cesari, geriatra, Policlinico di Milano, secondo il quale definire la fragilità è complesso (ne esistono ben sessantasette strumenti descrittivi) e può sbilanciare la descrizione dello stato delle persone tutta verso fattori biologici. La fragilità può essere invece intesa come uno stato dinamico: nonostante alcuni deficit dovuti all’invecchiamento, la persona può rimanere padrona delle proprie funzionalità e/o recuperarne alcune. E’ dunque importante valutare le capacità intrinseche residue di un individuo e non solo quelle perse.
Il modello dell’Intrinsec Capacity è, appunto, un modello che descrive e valorizza il combinato delle capacità fisiche e mentali di cui si è in possesso ma anche le condizioni ambientali che possono favorire, o sfavorire, un invecchiamento in salute. Si tratta di un punto di vista che permette interventi personalizzati, più centrati sulla persona e sulla prevenzione piuttosto che sulla malattia e sulla cura.
Anche per Giovanni Guaraldi, infettivologo e ricercatore dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena e Reggio Emilia è necessario applicare nuovi paradigmi alla medicina geriatrica per l’HIV. Innanzitutto bisogna cominciare a riconoscere e a descrivere le sindromi geriatriche e la fragilità nei pazienti con HIV e non solo le comorbidità. E’ importante anche perché le sindromi geriatriche e la fragilità, assieme alle multimorbidità, sono fattori predittivi dello sviluppo di disabilità e, generalmente, nelle persone con HIV sono più frequenti rispetto alla popolazione generale. Le sindromi geriatriche non sempre si diagnosticano ma vengono riferite, si evincono ascoltando il/la paziente e osservandone alcune funzioni (equilibrio, forza fisica, vitalità, velocità nel camminare, vista e udito, benessere psicologico, funzionalità intestinale, incontinenza, capacità cognitive) e sono fondamentali per tracciarne la traiettoria d’invecchiamento. Talvolta per la persona taluni deficit “geriatrici” possono essere più “invalidanti” di una malattia vera e propria e, dunque, occorre valutare come e se possano essere ridotti. Un secondo nuovo paradigma richiede di passare dalla valutazione dello stato patologico legato all’HIV alla descrizione dello stato di salute del paziente con HIV e quindi dal concetto di fragilità a quello di “intrinsec capacity”: l’invecchiamento in salute dovrebbe cioè essere descritto come un valore positivo, caratterizzato e guidato dalle nostre capacità residue. In questo contesto sarebbe dunque più corretto considerare l’HIV una componente della fragilità o della multimorbidità legata all’invecchiamento e non solo una fragilità specifica: HIV in frailty e non frailty in HIV.