Graziella ci mostra con soddisfazione la sua nuova carta d’identità, c’è impresso il nome che ha sempre voluto avere, un nome di donna: “Era quello che volevo, sono tanto, tanto contenta ma la mia vita è stata anche molto complicata, non è stata affatto facile, piena di alti e bassi”.
Comincia così, nella sede di LILA Como, il nostro incontro con Graziella, cinquantadue anni, volontaria LILA, la prima persona nella provincia lombarda ad aver ottenuto la riassegnazione anagrafica per cambio di genere, senza necessità di dover affrontare un intervento chirurgico.
La sua transizione, Graziella l’ha conclusa da tempo ma il riconoscimento, anche giuridico, è come una nuova vita che da senso alle tante che ha già vissuto. Accanto a lei, Giusi Giupponi, la combattiva e generosa Presidente della Lila di Como che l’ha sostenuta in ogni istante di questa battaglia e che spiega: “La sua lotta per il cambio di nome è coincisa anche con un percorso di riappropriazione della sua vita, della sua dignità, del suo benessere. Alla LILA è arrivata dieci anni fa, dopo ben quindici che sapeva di avere l’HIV, ma in LILA, come avviene talvolta, si arriva perché si è pronti ad affrontare un nuovo percorso di conoscenza, consapevolezza e condivisione –racconta Giusi- era la prima volta che incontravo una persona con HIV con la sua storia e ora questa storia lei vuole raccontarla per poter essere d’aiuto e incoraggiamento ad altre persone”.
Graziella, dunque, racconta. Racconta di come ha cominciato a sentirsi costretta nell’essere Claudio: “Ho cominciato a percepire in me qualcosa di diverso da quando avevo otto anni, mi paragonavo agli altri bambini e chiedevo: ma io cosa sono? Sei un maschio... mi dicevano, ma io non mi sentivo un maschio. Allora pensavo che dopo sarebbe passata, che a un tratto tutto sarebbe andato a posto. Invece, con il passare degli anni, questa sensazione si è rafforzata, giocavo con le bambole, volevo assomigliare alle donne e vedevo gli uomini come diversi da me; mi attiravano ma non mi identificavo in loro”.
I suoi ricordi, anche i più lontani, sono vividi e precisi come se ora avessero acquistato un senso, cessando di essere solo dei grumi di angoscia indistinta: “man mano che mettevo a fuoco la mia condizione, cominciavano anche le mie sofferenze. Mia madre mi diceva di non giocare con le bambole, i miei mi facevano pressione perché giocassi con i maschi, ma io non ci riuscivo. Verso i tredici anni quando ho iniziato a uscire, gli altri ragazzini e ragazzine cominciavano a farmi notare la mia femminilità, il mio modo di vestire, mi piaceva farmi guardare...Con gli anni, cresceva però anche la mia insofferenza. I miei amici avevano le ragazze, si fidanzavano e miei mi chiedevano perché non avessi una ragazza...Non ho ancora trovato la persona giusta, dicevo..Avrei voluto dirgli la verità ma sapevo che la verità non potevano accettarla”.
La scuola a Graziella non piace: “No, non è perché sia stata trattata male -precisa- lo studio non era proprio per me”. Così, a diciassette anni comincia a lavorare in una sartoria assieme ad una cugina. E’ un lavoro che le piace, che le sarebbe piaciuto fare per tutta la vita. L’indipendenza economica attutisce per un po’ il senso di frustrazione; con le altre lavoratrici sta bene, si sente accettata: “Percepivano la mia femminilità e la accettavano –ricorda- non mi escludevano, anzi”. Superati i vent’anni una forte depressione la costringe a casa per mesi: “non reggevo più il peso di non poter essere chi sentivo di essere. Non volevo più essere trattata come un uomo”. Intanto però arriva il licenziamento. “Mi è dispiaciuto moltissimo, era proprio brava e veloce a cucire. Loro lo sapevano ma non c’è stato verso. Non potevano licenziarmi ma l’hanno fatto”. La causa di lavoro le frutta un risarcimento e così Graziella decide di andarsene di casa e dal suo paese.
A Milano trova un lavoro, lo stipendio è buono e lei comincia di nuovo a respirare: “Lì mi sentivo benissimo, mi sentivo già una donna, meno costrizioni, più libertà, ho iniziato a travestirmi”. Quando però il lavoro lo perde, Graziella inizia a prostituirsi: “So che non era un bel lavoro –sembra giustificarsi- ma mi sentivo finalmente me stessa, una donna”. Con la libertà arriveranno però anche anni duri, fatti di sfruttamento, violenze e solitudine. Graziella finisce ad abitare con una collega trans più anziana che la sfrutta: “Guadagnavo molto bene, per me facevano la fila ma lei pretendeva sempre più soldi finché non ho deciso di andarmene”. Per un breve periodo torna a casa: “Ma non ce la facevo a restare, dovevo fingere continuamente” così si allontana di nuovo dalla famiglia -stavolta per anni- e si trasferisce a Torino, dove vive altre storie di sfruttamento e violenza. Prima è un’altra collega più grande a costringerla a lavorare per lei, poi un ragazzo di cui s’innamora che la picchia e le prende tutti i soldi: “Era un calvario, ma io ne ero innamorata e non capivo”. In strada arriva anche l’incontro con l’eroina: “me la proposero due ragazzi gentili e ho iniziato a prenderla. Mi faceva sentire benissimo ma solo ora mi rendo conto che non ero affatto felice: è che non avevo altro modo per essere me stessa”. A ventisei anni, per l’ennesima volta, Graziella fugge, finisce in mano ad un’altra sfruttatrice che, per un periodo la porta a lavorare in Sicilia: “pensavo che tutte queste persone fossero sincere ma si approfittavano di me, anche perché era difficile per una come me trovare un lavoro, una casa in cui stare. Lì, in Sicilia, ho capito che non ce la facevo più. Era un inferno, stavo molto male, piangevo”. Il ritorno a Torino sembra calmare un po’ le acque ma il disagio resta fortissimo. Intanto la madre, disperata, la cerca, telefona continuamente ai Carabinieri, chiede che la cerchino: “avevo ventisette anni, non è che potessero fare nulla ma alla fine, un Carabiniere, commosso dal dolore di mia madre, mi ha trovata. Mi ha detto: ma che persona sei? Sono cinque anni che non ti fai vedere dalla tua mamma, lei è disperata! E’ stato come uno schiaffo e così ho chiamato mia madre, ho chiuso con l’eroina e sono tornata”.
Graziella resta nel suo paese, la famiglia fatica ad accettarla come donna però non la respinge. E stavolta, lei decide di restare e di battersi per i suoi diritti, sia pure, all’inizio, in modo confuso: “Ero fuori di me, volevo essere chiamata Graziella, volevo subito un lavoro, una casa”. Nel 1995 scopre di avere l’HIV. La prima volta che si rivolge alle LILA di Como è per avere supporto nella richiesta per la pensione di inabilità che le viene riconosciuta grazie agli anni di lavoro nella sartoria. Anni dopo,si rivolge all’assistente sociale del suo comune per avere aiuto rispetto all’HIV e viene inviata alla LILA, siamo ormai nel 2010. Ad accoglierla, stavolta, è Giusi Giupponi: ”Giusi è stata davvero tanto importante per me –ci dice Graziella- mi ha trovato due borse lavoro per fare le pulizie, mi ha proposto un percorso di counselling che è durato ben due anni, poi uno psicologo, mi ha seguito sempre... Piano piano, ho iniziato a sentirmi meglio”.
“Voleva i suoi diritti - racconta Giusi - ma una donna con l’anagrafica di un uomo nessuno la assume. Il percorso che le abbiamo proposto è stato un percorso d’autonomia, riscoprire il valore del lavoro, pianificare le spese, mettere via dei soldi, accedere ai sussidi cui aveva diritto, recuperare la capacità di gestire la vita quotidiana”. Grazie alle due borse lavoro, Graziella è impiegata in alcune strutture di volontariato, ambienti protetti e, per lei, più sereni. Giusi la convince dell’importanza di riprendere a leggere e a scrivere: “Si fermava dopo il lavoro con una nostra volontaria e studiava –racconta la Presidente- noi le abbiamo dato gli strumenti ma la forza per fare i progressi immensi che ha fatto ce l’ha messa lei; si è ripresa la sua dignità e questo ci riempie di orgoglio”.
L’esperienza di questa borsa lavoro le restituisce un senso di quotidiana normalità, poi arrivano anche una casa popolare, un po’ di tranquillità e una nuova consapevolezza di sé; ma per la legge, Graziella era e restava Claudio, costretta in un’identità mai stata sua. La legge in vigore allora permetteva i cambiamenti anagrafici di genere solo a chi si fosse sottoposto/a ad intervento chirurgico e le condizioni di salute di Graziella, un intervento non lo permettevano.
La svolta arriva, ormai inattesa, nel 2015 quando una sentenza della Corte di Cassazione stabilisce che per la riattribuzione anagrafica di genere non sia più necessario un intervento chirurgico di conversione genitale ma che siano sufficienti le constatazioni di disforia di genere e dell’avvenuto processo di transizione, al di là del dato puramente fisico-morfologico. Graziella ci pensa, valuta, ne parla più volte con Giusi e con lo psicologo che la segue e, nel 2017, decide che il suo momento è arrivato. La LILA di Como decide di sostenere la battaglia di Graziella, insieme si informano, si attivano, cercano i legali adatti a supportarli. Si arriva così all’incontro con gli avvocati dello studio varesino Bulgheroni - Brumana. Dopo un primo esame di fattibilità, l’istanza per la riattribuzione anagrafica del nome viene attivata. Il procedimento parte nel 2018. Il giudice, prima di decidere, dispone una CTU, una Consulenza Tecnica d’Ufficio sullo stato di transizione di Graziella e la affida a due specialisti: una psichiatra e un endocrinologo. Gli incontri da affrontare sono una decina, gli esperti ben disposti ma gli accertamenti sono severi, domande e ricostruzioni talvolta invasive: desiderio di genitorialità, attività sessuale, rapporto della ricorrente con il proprio pene. Graziella sa cosa rispondere, si mostra sicura delle sue ragioni: “In alcuni momenti è stato pesante –racconta - ma io ci credevo moltissimo in quello che stavo facendo e poi ne ho passate tante, così ho retto bene”. I momenti di sconforto non mancano, soprattutto per i tempi del procedimento ma si va avanti. La sentenza favorevole arriva a gennaio 2020 e passa in giudicato nell'estate 2020: Graziella ora ha il diritto di chiamarsi così.
Per lei, per i legali che l’hanno seguita e per LILA Como è una vittoria: “Questa azione è stata molto importante per una città come Como che su questi aspetti ha una mentalità molto chiusa ed è stata anche la prima volta per la LILA –riprende Giusi Giupponi- E’ importante che le persone che desiderano ottenere un cambio anagrafico di genere sappiamo che possiamo offrire loro un supporto. E’ anche però importante essere molto chiari sul fatto che questo procedimento, se non si ha diritto al gratuito patrocinio, ha, purtroppo, un costo elevato, e questo limita i diritti delle persone”.
Ottenuto il passaggio in giudicato delle sentenza, è stato richiesto il cambio di tutti i vari documenti, procedure che si sono svolte senza ostacoli particolari. “All’inizio i funzionari comunali erano disorientati, del resto si sono trovati di fronte ad un caso senza precedenti in questa città –spiega Giusi- ma in pochi giorni tutte le procedure sono state completate senza che si verificassero atteggiamenti ostili”.
“Ho avuto tanta forza e ora sono tranquilla con me stessa, con la mia vita”, prosegue Graziella. In famiglia le cose vanno meglio e un po’ si commuove pensando agli sforzi di sua madre: “Sta cercando di capirmi; per la prima volta l’ho sentita definirmi “sua figlia” mentre parlava di me con una vicina; con mio fratello è stata dura ma almeno ora mi rispetta”. Più difficili i rapporti con il padre: “ho provato a dirgli: sono nata così, non ne ho colpa… Ma ormai è anche troppo anziano e malato e non insisto. Però nessuno di loro mi rifiuta e capisco che non è cosa da poco per una famiglia del secolo scorso”.
Commentiamo insieme il dramma di Maria Paola Gaglione, avvenuto pochi giorni prima: “Una violenza assurda che nasce dall’ignoranza. La mentalità sta cambiando ma troppo lentamente –riflette - le leggi invece ora sono più avanzate di quando ero ragazza e questo può aiutare”.
“Se conoscesse ora un ragazzo o una ragazza che sta passando quello che ha passato lei –le chiedo- cosa gli direbbe?” La figura elegante di Graziella si illumina: “gli direi di ascoltare il suo cuore e di seguirlo, di lottare come ho fatto io per il diritto di essere chi sente di essere”.
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