Un convegno nazionale ha fatto il punto, per la prima volta in Italia, sulle connessioni HIV/COVID dal punto di vista, sociale, relazione e sanitario. A confronto medici, studiosi e community. La Pandemia, hanno evidenziato gli interventi, ha avuto, inevitabilmente, dei risvolti critici sui percorsi di cura e assistenza all’HIV ma soprattutto su diagnosi e prevenzione. Anche in Italia segnalato un grave tracollo dei test per la diagnosi dell’HIV.
A chiudere il 2020, lo scorso 21 e 22 dicembre si è svolto in modalità virtuale il convegno nazionale “Let’s Stop HIV” dal titolo L’impatto di SARS-CoV-2, ideato e organizzato dalle professoresse Cristina Mussini, direttrice Malattie Infettive dell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Modena, e Anna Maria Cattelan, direttrice Unità operativa complessa di Malattie infettive di Padova. A presentare il tema, al centro di diversi studi italiani e internazionali fin dall’inizio della pandemia, numerosi medici infettivologi e immunologi, psicologi, attivisti, rappresentanti del mondo delle associazioni, che si sono confrontati su similitudini e differenze tra HIV e SARS-CoV-2, effetti sulle persone che vivono con l’HIV, e preoccupazione per il mancato raggiungimento degli obiettivi ONU 2020.
Come confermano molti studi condotti durante la prima ondata di pandemia, infatti, molti servizi dedicati alle PLWHIV (People Living With HIV) avrebbero subito delle limitazioni importanti: le previsioni erano che l’alta domanda sui servizi sanitari causasse una riduzione del tasso di persone che hanno accesso alle terapie salva-vita, un aumentato rischio di sospensione della terapia per chi era in trattamento e di perdita della soppressione virale. In realtà, nella seconda metà dell’anno, UNAIDS ha rilevato che le persone in trattamento non hanno tendenzialmente interrotto la terapia anche nei paesi più colpiti, ma il monitoraggio e l’accesso alle cure è stato messo fortemente a rischio in particolare per le popolazioni più vulnerabili. Tuttavia, i servizi di prevenzione sono stati quelli più colpiti, in particolare l’accesso al test e alla profilassi pre-esposizione (PrEP). Per quanto concerne il test, in particolare, si è registrato un crollo di oltre il 50% del volume dei test effettuati, non solo nei paesi a risorse limitate ma anche in gran parte dell’Europa.
Per quanto concerne la correlazione tra SARS-CoV-2 e HIV, seppure alcuni studi condotti nel Regno Unito e in Sud Africa indichino un aumento di rischio di complicazioni dovute al COVID e un rischio maggiore di mortalità nelle persone che vivono con l’HIV, molti altri studi pubblicati in Europa e negli Stati Uniti tendono a smentire questo dato. “Non è ancora chiaro -ha detto il Professor Andrea Cossarizza dell’Università di Modena e Reggio Emila- in che modo l’infezione da HIV influenzi quella da COVID e mancano dati sui possibili cambiamenti immunologici nei pazienti HIV positivi”. Tendenzialmente si può affermare che i pazienti HIV in terapia stabile e con carica virale azzerata non sono maggiormente a rischio rispetto alla popolazione generale, chi non è in terapia o ha un’infezione avanzata potrebbe invece essere più a rischio. Inoltre i pazienti che presentano più comorbidità hanno bisogno di un’attenzione maggiore.
Non è mancato all’appello il tema dell’eradicazione, con una interessante relazione del Professor Mario Clerici, cattedra di immunologia all’Università degli studi di Milano, il quale ci ha ricordato che, nonostante gli innumerevoli progressi della scienza nel campo HIV, non siamo ancora arrivati ad una cura in grado di eradicare il virus. Diverse le problematiche in questo senso, in primis il fatto che si tratti di un virus molto scaltro in grado di infettare anche le cellule CD4 di memoria, che persistono nel nostro corpo tutta la vita e i linfociti situati all’interno di organi poco raggiungibili dalla terapia. Tali cellule costituiscono i cosiddetti reservoirs del virus, presenti tra 100 000 e 10 milioni di copie anche in pazienti con carica virale soppressa. La dimensione dei reservoirs dipende dalla viremia all’inizio della terapia e resta costante negli anni. I reservoirs tendono quindi a mantenersi immutati anche a fronte di una viremia soppressa grazie alla terapia ART. “Le nuove possibili frontiere nel campo dell’eradicazione tra cui la “chock and kill” strategy o la tecnica “Crisp” — ha spiegato — sono strategie ancora in fase di sperimentazione ma comunque molto complesse e difficili da realizzare”. Ciò nonostante, grazie alla cura funzionale che tiene sotto controllo la replicazione del virus: "L’aspettativa di vita delle persone HIV positive è essenzialmente sovrapponibile a quella della popolazione generale di pari età -ha proseguito Clerici- la fine dell’AIDS si potrà raggiungere non con l’eradicazione, ma grazie al vaccino”.
Sul tema dello stigma in HIV e COVID sono intervenuti Margherita Errico, Presidente di NPS Italia, e il dottor Massimo Cernuschi, infettivologo al San Raffaele e presidente dell'Associazione Solidarietà Aids (ASA). In quanto medico e attivista, Cernuschi ha sperimentato cosa hanno provato coloro che avevano l’HIV negli anni ’80 ed ora, sopravvissuto a COVID, li mette a confronto dal punto di vista dello stigma. “Nel caso del COVID -ha raccontato- c’è un forte e diffuso stigma nei confronti delle persone che lavorano in ospedale, controllate a vista e tenute alla larga in quanto persone potenzialmente a rischio”. C’è poi il problema dell’autostigma, spesso presente nelle persone HIV positive, che si manifesta in un blocco nelle relazioni con gli altri a causa della paura di essere giudicati male; nell’era COVID sono i medici e gli operatori sanitari ad isolarsi per evitare di infettare gli altri. Questa chiusura verso l’esterno era un atteggiamento comune nelle persone con l’HIV in passato, ma che purtroppo esiste ancora oggi anche se in misura minore. Da ciò si evince quanto il concetto di U=U non sia passato in modo sufficiente nella popolazione generale. “Nella gestione della sessualità -ha detto Margherita Errico- non dobbiamo dimenticare le lezioni apprese in ambito HIV, in cui a poco è servito l’approccio negativo e di condanna verso i rapporti sessuali e d’affettività”. La pandemia da COVID ha portato a restrizioni e isolamento che ci inducono a limitare i contatti, creano paura e condizioni di stress. Ancora una volta, sono necessari, dunque, una chiara informazione e percorsi di sostegno psicosociale, per far si che le persone prendano decisioni consapevoli riguardo alle loro relazioni. Su questo tema si inserisce anche l’intervento dal titolo “Approccio psicologico alle Epidemie” della dottoressa Alessandra Bianchi, psicologa e psicoterapeuta di ASA che ha evidenziato come i sentimenti di paura, ansia, confusione e smarrimento siano comuni e ricorrenti durante le epidemie e che ha rilevato interessanti parallelismi tra le due patologie dal punto di vista emotivo: “La pandemia da COVID ha rivoluzionato il mondo di ognuno di noi -ha esordito- ha causato sconvolgimenti nel nostro stile di vita, ha portato incertezza e paura: paura della morte, della sofferenza e dell’ignoto, e non ultima la paura nei contatti. Sono pensieri e sentimenti analoghi a quelli che prova una persona che scopre di essere positiva all’HIV, e che questa nuova epidemia ha in qualche modo risvegliato". Secondo Bianchi, non va inoltre dimenticato che: “le persone con l’HIV, come tutti i pazienti di malattie croniche, nel protrarsi dell’epidemia si sono sentiti abbandonati dai loro centri di riferimento, quelli in prima linea in questa emergenza”. Tra le azioni utili da portare avanti, Bianchi ha indicato dei programmi per diffondere una buona conoscenza scientifica di base sia nei pazienti COVID che nella popolazione generale, al fine di contenere la malattia ma anche per mitigare l’angoscia: “L’uso di una comunicazione chiara e comprensibile –ha concluso- può ridurre risposte psicologiche negative e aumentare l’aderenza a stili di vita adeguati”.
Da tutte le relazioni presentate al Convegno appare palese che il SARS-CoV-2 abbia avuto un impatto significativo su tutti i servizi di assistenza e diagnosi per le PLWHIV, anche se dai dati emersi dai nostri ospedali quello più significativo è il calo del numero dei test effettuati, che prefigura nel lungo termine conseguenze negative sulle nuove diagnosi e numeri maggiori di late presenters, ovvero coloro che scoprono di aver contratto il virus troppo tardi o quando il sistema immunitario è già compromesso. Una presentazione tardiva delle nuove infezioni da HIV interessa in modo particolare il nostro paese con numeri più alti rispetto alla media europea. “Il problema dei nuovi pazienti non può prescindere dall’azione di disturbo della pandemia COVID” ha confermato anche il Professor Sergio Lo Caputo, cattedra di malattie infettive all’Università di Foggia, ricordando, inoltre, quanto denunciato da UNAIDS in occasione dell’ultima giornata mondiale della lotta all’AIDS. “Il rischio -ha continuato Lo Caputo- è quello di una recrudescenza dell’epidemia di HIV, il che porterebbe ad un aumento dei late presenters, delle nuove diagnosi, dei fallimenti virologici dovuti a una riduzione dell’aderenza e un aumento delle comorbidità legato alla riduzione drastica dei controlli in molti pazienti".
“Si rischia una penalizzazione assoluta grave dei servizi HIV che potrebbe portare ad un aumento della mortalità per AIDS”, ha commentato anche il Dottor Andrea Antinori, infettivologo e direttore Malattie Infettive dell’IIRCCS INMI Lazzaro Spallanzani di Roma.
Per sostenere la relazione medico-paziente, sono necessarie nuove strategie di testing e nuove modalità come lo strumento della telemedicina, ha evidenziato Giovanni Guaraldi, infettivologo e responsabile della clinica Metabolica presso il Policlinico di Modena. Nell’individuare le vulnerabilità in HIV e COVID, se prima si parlava di fragilità in ambito HIV, oggi si fa riferimento all’importanza della resilienza e si aspira ad un modello che possa mettere a confronto e sostenere questi due fattori. Risultano meno resilienti, naturalmente, le persone anziane e quelle più sole, dato da attribuire non alle malattie, ma a determinanti psico-sociali.
A proposito di fragilità nelle persone HIV positive, Filippo Schloesser, Presidente di NADIR Onlus, nel suo intervento ha denunciato la mancanza di informazione, di chiarezza sui dati delle nuove infezioni di HIV: “Si danno i numeri senza tener conto dei test effettuati - ha detto -in un paese in cui non si ritiene necessario finanziare la PrEP e non se ne parla. Nonostante le nuove e innovative possibilità offerte dalla scienza - ha continuato- nel nostro paese manca un disegno globale che ci permetta di applicare la prevenzione a tutto campo, senza lasciare indietro le persone più fragili o che vivono in situazioni disagiate”. Le persone HIV in un quadro SARS-CoV-2 presentano difficoltà maggiori e un carico di ansie più importante dal punto di vista psicologico e sociale, tenendo conto del fatto che non si riesce ancora a vedere la fine né del COVID né tantomeno dell’HIV. “E’ molto probabile -ha continuato Schloesser- che in questo scenario venga meno la resilienza delle persone, ovvero la capacità di reagire con una spinta contraria a quella ricevuta”. Il Presidente di NADIR ha poi annunciato come la sua organizzazione stia portando avanti con il contributo di altre ventuno realtà della community, tra cui anche la LILA, la creazione di un “PRO HIV” (PRO= Patient Reported Outcome) che sarà presentato alla SIMIT nei primi mesi del 2021. Si tratta di una sorta di questionario che riporta, in modo misurabile e senza interferenze del medico, le dirette esigenze del paziente, le sue difficoltà, la sua esperienza della patologia. Tale documento può facilitare la relazione medico-paziente in un nuovo sistema che coinvolga anche la telemedicina. “Oggi, più che mai -ha detto ancora Schloesser- è necessario che SIMIT e associazioni riconquistino il proprio ruolo fondamentale nella società, un ruolo di influenza nei confronti delle istituzioni per quanto concerne le questioni legate alla salute dei cittadini”