Maria Grazia Di Benedetto è componente del Coordinamento Nazionale della LILA; lunga storia di impegno alle spalle, si occupa da tempo della salute delle donne con HIV e cura progetti e ricerche per l'associazione sul tema della maternità in HIV. Questa è la sua intervista.
Per le donne con HIV le possibilità di scegliere una maternità sicura e consapevole sono nettamente migliorate. Cosa è cambiato?
L’approccio alla maternità è completamente cambiato se si pensa che, tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90, alle donne con HIV che si scoprivano incinte, perlopiù, veniva proposto di abortire; tante hanno poi abortito, altre hanno scelto di rinunciare ad ogni progetto di maternità. C’era, infatti, un alto rischio, quello di trasmettere l’HIV al nascituro o alla nascitura e le aspettative di vita per le persone con HIV erano estremamente basse.
La terapia antiretrovirale ha letteralmente rivoluzionato questa prospettiva; più in generale, la qualità della vita delle persone che vivono con l’HIV si avvicina sempre più a quella della popolazione generale. Già a partire dagli anni novanta, proprio per cercare strategie che riducessero il rischio di trasmissione materno-fetale, emerge il ruolo dei farmaci antiretrovirali nella prevenzione della trasmissione dell’HIV. Oggi sappiamo che una persona con HIV con carica virale (CV) non rilevabile non trasmette sessualmente il virus (U=U ossia Undetectable equals Untrasmittable) e per la donna che vive con l’HIV che desidera una gravidanza questo si traduce nella possibilità di mettere al mondo figli senza HIV e vederli crescere.
Attualmente cosa deve aspettarsi una donna con HIV che voglia diventare madre in Italia? Che prospettive di salute ha il nascituro/a?
Nei centri dove sono seguite, le donne con HIV in età fertile andrebbero ascoltate senza giudizio sulle scelte che riguardano la propria sfera sessuale e riproduttiva, dovrebbero ricevere dal personale medico informazioni sia sui metodi contraccettivi, qualora una gravidanza non rientri nei propri programmi, sia su concepimento e gravidanza, con indicazioni in linea con le più attuali conoscenze scientifiche, nel caso emerga una progettualità genitoriale.
Tali informazioni devono tenere conto di U=U per quanto riguarda il concepimento che, così, può avvenire in modo naturale e senza bisogno di ricorrere alla procreazione assistita come, invece, si faceva in passato. Occorrono, ancora, informazioni e supporto per iniziare e restare aderenti alla terapia e arrivare al momento del parto con una CV inferiore alle 50 copie, condizione essenziale per avvicinarsi il più possibile al rischio zero di trasmettere il virus al bambino/a durante il parto; una carica virale materna inferiore alle 50 copie e condizione ostetriche favorevoli possono consentire il parto per via vaginale. Fondamentale è scoprire l’infezione tempestivamente, così da iniziare la terapia prima possibile in caso di positività. Se tutte le condizioni sono favorevoli, il bambino o la bambina avranno una prospettiva di salute uguale a quelli nati da donne non HIV.
Gravidanza, parto e allattamento in HIV come vengono gestiti? Cosa dicono le linee guida nazionali?
Le “Linee Guida HIV e Gravidanza” sono ferme al 2012; le successive “Linee Guida" sull’utilizzo della Terapia Antiretrovirale e la gestione diagnostico-clinica delle persone con infezione da HIV-1” edite da SIMIT sia, pure aggiornate, risalgono al 2017, ben sette anni di ritardo che in medicina, oggi, rappresentano un’eternità; le procedure o sono obsolete, come ad esempio quelle sull’allattamento al seno, o basate sulla pratica clinica, studi o linee guida estere.
L’indicazione cruciale ai fini di un esito positivo della gravidanza e poi del parto, è diagnosticare prima possibile l’HIV, per questo il test viene raccomandato durante il primo trimestre e poi al terzo, in caso di esito positivo la donna inizia subito idonea terapia. Oggi, grazie alle terapie è anche possibile un parto naturale perché si è osservato che il cesareo, in caso di una carica virale non rilevabile (che prima veniva praticato sempre) non aggiunge nulla in termini di sicurezza e che, anzi, i rischi del taglio cesareo sono di gran lunga superiori al rischio di trasmettere l’HIV al nascituro o alla nascitura. Se le donne hanno una carica virale rilevabile, viene somministrato AZT per infusione prima del parto e al bambino o alla bambina viene fatta una profilassi per sei settimane che si riducono a quattro se la donna ha viremia non rilevabile;
Alcuni esperti concordano che in caso di carica virale "undetectable" (non rilevabile) si potrebbe evitare la profilassi neonatale. Quanto tutto questo si trasformi poi nella realtà non è facile da sapere; da una nostra ricerca condotta tra le donne con HIV che hanno partorito in Italia tra il 2016 e il 2019 è emerso che più della metà (52,2%) delle donne del nostro campione che aveva una carica virale undetectable, aveva partorito con il cesareo, una percentuale molto più alta della media generale.
Dalla testimonianza di alcune donne, sappiamo inoltre che l’infusione di AZT viene fatta anche in presenza di una carica virale non rilevabile e questo, se non precedentemente concordato e non basato su evidenze scientifiche, rappresenta un abuso sul corpo delle donne.
Negli ultimi anni, LILA per prima in Italia, ha avviato un dibattito sull’allattamento al seno, che al momento risulta non raccomandato alle donne con HIV, rivendicando un maggior coinvolgimento della donna nel processo decisionale sulla scelta dell’alimentazione infantile. Ricordiamo che alcuni studi, condotti in paesi in cui l’allattamento al seno è raccomandato, indicano un rischio di trasmissione dovuto al latte materno inferiore all’1% se la CV è inferiore alle 50 copie. Solo recentemente EACS (European AIDS Clinical Society) ha inserito nelle sue linee guida la possibilità di includere le donne in questo processo e di supportarle qualora decidano di allattare invitando a fornire loro “informazioni accessibili e chiare relative al rischio basso ma diverso da zero di trasmissione durante l’allattamento”. Nulla aggiungono però sui benefici dell’allattamento al seno, cosa che fanno, invece, le linee guida sull’HIV degli Stati Uniti, nell’ultimo aggiornamento, accolto con plauso dalle associazioni locali.
In Italia c’è invece un grande vuoto che rende difficile fornire indicazioni chiare e dare risposte al numero sempre più crescente di donne che, avendone sentito parlare, chiedono maggiori informazioni sulla possibilità di allattare i loro bambini, almeno laddove trovino ascolto. Restano molto alte, infatti, le probabilità di sentirsi giudicate e respinte e di essere costrette a spostarsi in centri più lontani ma più disponibili ad ascoltare le istanze delle donne, e finanche, nei casi estremi, ad allattare di nascosto.
Nell’ultimo anno di rilevazione i casi di trasmissione verticale riscontrati sono stati 6. Cosa sappiamo in merito?
Nel 2022, i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, purtroppo, hanno evidenziato, in Italia, ben sei casi di trasmissione verticale ad altrettantə neonatə. La maggior parte di queste trasmissioni verticali, non sappiamo in quale percentuale, si sono verificate tra donne straniere provenienti dall’Africa centrale. Esiste, quindi, in questo gruppo una maggiore vulnerabilità ai fini di una trasmissione verticale. Le cause sono da ricercare in fattori come le condizioni sociali in cui spesso le donne immigrate si trovano a vivere. Le persone straniere possono contrarre l’infezione durante il viaggio di emigrazione ma più spesso l’HIV viene contratto nei paesi di approdo dove, purtroppo, vivono spesso, in situazioni di marginalità, non hanno conoscenza dei propri diritti e, se aventi status amministrativi irregolari, possono incontrare difficoltà ad accedere ai servizi sanitari. È ovvio, quindi, supporre che per le donne straniere, una volta scoperta la gravidanza, sia difficile accedere e restare, poi, aderenti alle terapie che permettano loro di raggiungere una carica virale non rilevabile al momento del parto; inoltre, dato il forte valore culturale che l’allattamento al seno ricopre in molte culture, alcune donne potrebbero essere portare a praticarlo di nascosto, senza il supporto clinico necessario ad allattare con maggiore sicurezza. Le politiche di immigrazione e i percorsi dell’accoglienza dovrebbero tenere conto del maggior rischio cui sono esposte le donne e i bambini/e migranti.