Si è svolta a Riccione la tredicesima edizione di ICAR, Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, il principale appuntamento annuale italiano sull’HIV/AIDS, occasione di confronto e di bilancio tra comunità medica, scientifica e community.
“Re-search to re-start together” è stato il claim quest’anno, che ha segnato anche il ritorno in presenza dell’assise e la speranza di un allentamento definitivo dell’emergenza COVID. La tre giorni, svoltasi tra il 21 e il 23 ottobre, era significativa anche per altri aspetti: i 40 anni dalla comparsa dell’HIV nel nostro paese e la presenza a Riccione della categoria di medici e ricercatori più coinvolti dall’emergenza Covid di questi due anni, trascorsi in prima linea. Di grande rilievo anche il dibattito che si è svolto sull’aggiornamento della legge 135/90 sull’HIV AIDS.
I numeri del congresso hanno superato le attese: 186 membri della Faculty, quasi 1000 partecipanti, 200 giovani ricercatori e 110 membri della community, 264 lavori originali presentati in 65 sessioni scientifiche. Presidenza affidata, quest’anno, per la prima volta, a un team tutto al femminile: le Professoresse Cristina Mussini , Maria Rosaria Capobianchi, Anna Maria Cattelan e Giulia Valeria Calvino, vicepresidente ANLAIDS, riferimento per le community. Dai lavori presentati emergono grandi speranze per una nuova fase di ricerca e di studi: “Abbiamo vissuto l’avvento delle cure per eradicare l’epatite C, poi l’arrivo dei vaccini anti-COVID, ora è giusto confidare nella messa a punto di trattamenti in grado di guarire anche l’HIV” - ha detto la Chair Cristina Mussini- quanto ai vaccini, il risultato non è dietro l’angolo ma ci sono studi avviati a cui prestare molta attenzione”.
A dare grandi speranze, ma anche a richiamare l’attenzione sulle esigenze delle PLWHIV, è stata la relazione della Professoressa Antonella Castagna, Università Vita e Salute - San Raffaele di Milano: “Nonostante la pandemia da Covid, in questi due anni la ricerca non si è fermata e siamo in un momento di grande fermento -ha detto- Nuove classi di farmaci sono in arrivo e con formulazioni Long active mentre prende sempre più piede la dual therapy”. Castagna ha tuttavia esortato a colmare, fin da subito, alcune disparità e iniquità che ancora caratterizzano l'accesso a farmaci, cure e prevenzione, soprattutto tra le Key population e nei paesi più poveri. Tra le indicazioni c’è quella di accelerare le ricerche sul trattamento delle infezioni in fase avanzata e sulle patologie opportunistiche ma anche l’appello a gestire con competenza la PrEP (la profilassi Pre-Esposizione che può ridurre in modo decisivo il numero di nuove infezioni) e a rafforzare i servizi di testing e counselling, compresi quelli svolti dalle community. Attenzione puntata anche su quei pazienti le cui opzioni di trattamento risultano limitate a causa della resistenza a più classi di farmaci e in condizioni di grande fragilità (pazienti MDR, multi-drug resistent). Si tratta di una percentuale tra l’1% e il 3% degli oltre 100.000 pazienti italiani in trattamento antiretrovirale. Per loro sono ora disponibili due farmaci dal meccanismo d’azione innovativo: Ibalizumab (Trogarzo), primo anticorpo monoclonale contro l'HIV, long acting, approvato recentemente da AIFA, e Fostemsavir (Rukobia), primo inibitore dell’attachment virale. Per favorire aderenza e durabilità delle terapie diversi sono gli studi su trattamenti long-acting, farmaci cioè da assumere solo periodicamente e non quotidianamente, che possono ridurre la fatica dei trattamenti, fattore importantissimo per il successo delle terapie, come ha ricordato Castagna. Più complesso, secondo la Professoressa, il nodo vaccini. L’attenzione è in particolare a due studi, Imbokodo, la cui prima fase è però fallita e Mosaico, ancora attivo, che in arruolamento accetta anche volontari in PrEP, limitando i rischi d’infezione in fase di studio. “L’obiettivo finale però è la cura” ha detto Castagna, anche se c’è il problema di dover gestire l’interruzione delle terapie ART. Tra gli studi in corso, anche quelli basati su tecniche CRISPR cioè la rimozione del DNA di HIV dalle cellule tramite “editing genomico” . Uno studio, EBT 101, autorizzato dalla FDA Usa, cui collabora anche la statale di Milano, ha dato risultati interessanti, in fase pre-clinica, sugli scimpanzé. “Rafforzare la partecipazione e la vigilanza delle community sui trial” è stato l’appello finale di Castagna.
A confermare tutta la difficoltà nella messa a punto dei vaccini contro l’HIV è stato uno dei massimi esperti mondiali di vaccinologia, il Professor Mino Rappuoli, Direttore scientifico e responsabile ricerca e sviluppo Gsk Vaccines, che ha messo a punto vaccini come quello per la pertosse, per il meningococco, per diversi virus influenzali ma: “Sul vaccino contro l’HIV, per ora non siamo riusciti a fare nulla –ha detto- nonostante diversi studi abbiamo fallito. Io, ancora non saprei come sviluppare un vaccino anti-HIV, ma non ci arrendiamo, non è detta l’ultima parola”.
A lasciare aperta qualche speranza è la grandissima innovazione compiuta dalla ricerca rispetto ai vaccini anti-COVID. Fino al 2009 per produrre un vaccino occorreva isolare un virus, elaborarlo e poi iniziare la produzione, una fase che prevedeva tempi molto lunghi, fino a dieci anni. “Puntavamo ad accorciare la fase della produzione almeno a cinque anni –ha detto Rappuoli- poi con il Covid ci abbiamo messo dieci mesi”. Com’è potuto accadere? “Per due motivi –la risposta di Rappuoli- gli enormi investimenti pubblici messi in campo per la lotta al COVID e gli studi, condotti tra il 2010 e il 2020, sulle nuove tecnologie vaccinali”. Queste nuove tecnologie (RNA messaggero e vettori virali), si stavano studiando fin dalle prime pandemie influenzali, ha spiegato il Professore, poi, le ingentissime risorse messe a disposizione dai governi per la lotta al COVID, hanno permesso di sviluppare in parallelo tutte le fasi della sperimentazione, senza saltarne nessuna ma accorciando enormemente i tempi. “Grazie a queste innovazioni –ha proseguito Rappuoli- non abbiamo più bisogno fisicamente del virus ma ci basta il suo codice. Si tratta di vaccini digitali e non analogici che si possono sintetizzare in parti diverse del mondo”. Necessaria, per Rappuoli, la terza dose anche perché i vaccini possono meglio essere adattati contro le varianti mentre l’immunità “naturale” può rispondere in mondo meno efficace.
Per avere risposte ai dubbi e alle paure più comuni su COVID, Vaccini e HIV, cure, abbiamo chiesto aiuto al Dottor Enrico Girardi, direttore scientifico dell'Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma. Ascolalo nel video realizzato da Laura Supino e Fabio Festa.
Numerosi gli studi sull’impatto delle coinfezioni HIV/COVID. In generale, si conferma che la maggiore esposizione delle PLWHIV a esiti gravi del COVID derivi dal fatto che, in questo gruppo di popolazione, si presentano livelli lievemente più alti di comorbidità rispetto alla media. I fattori di rischio sono però gli stessi della popolazione generale: presenza di altre patologie ed età avanzata. Per le persone con bassi livelli di CD4 o in AIDS, ovviamente, il rischio aumenta notevolmente.
Social Sciences
Di grande interesse, anche in questa edizione, gli interventi di carattere sociale e scientifico-sociale, aspetti difficilmente separabili per un’efficace risposta all’HIV/AIDS, un corpus di lavori che hanno confermato l’elevata competenza e l’alta capacità di leadership delle community. Al Presidente nazionale LILA, Massimo Oldrini, è stato affidato uno degli interventi più importanti, quello d’apertura, dedicato alla storia dei quarant'anni dalla comparsa dell’HIV nel nostro paese, incontro condotto assieme al Professor Giuseppe Ippolito, già direttore scientifico dello Spallanzani di Roma e ora Direttore Generale della Ricerca e dell’innovazione in sanità del Ministero della Salute. Ippolito ha descritto questi quaranta anni alla luce, anche dei grandi progressi scientifici sul fronte delle cure e della ricerca. “Questi progressi non sarebbero stati possibili senza le persone con HIV " ha detto Oldrini, ricordando in apertura tutti coloro che “hanno combattuto con noi e per noi” e che ora non ci sono più. La sua è stata, infatti, la ricostruzione di quarant'anni di attivismo, in Italia e nel mondo, di un protagonismo delle persone con HIV che non ha eguali nella storia delle battaglie per il diritto alla salute ma anche, dello stigma più violento, delle discriminazioni, della violazione dei diritti umani che troppe persone hanno dovuto subire e che ancora sono costrette a subire. La carta di Denver, del 1983, “Niente su di noi senza di Noi” fu la prima e fondamentale pagina scritta dagli attivisti. Oldrini ne ha ricordato una delle frasi chiave: “Condanniamo ogni tentativo di etichettarci come vittime, un termine che implica rassegnazione; solo occasionalmente ci considerano pazienti, un termine che implica passività e sottomissione. Noi siamo persone con HIV/AIDS”. Decennio per decennio, Massimo Oldrini ha così ricostruito le fasi cruciali dell’impegno delle persone con HIV, determinante anche per sospingere la ricerca scientifica: gli anni ’80, quelli della morte senza speranza, della nascita delle prime associazioni, dello stigma e delle persecuzioni, dell’incapacità delle istituzioni nell’organizzare una riposta efficace e di dare risposte non moralistiche o ideologiche. A seguire, gli anni 90: “dal baratro alla svolta”, con l’arrivo di primi farmaci dannosi e inefficaci fino ai primi antiretrovirali. In questi anni le persone con HIV, grazie anche alla nascita dei TAG di ACT UP e di EATG, da pazienti diventano interlocutori competenti. In Italia arriva la legge 135 e viene costituita la Consulta delle Associazioni ma, complici le istituzioni, la prevenzione non decolla e l’AIDS diviene, come in tutto il mondo, la prima causa di morte tra i giovani. Gli anni ’90 sono in Italia anche quelli dello scandalo del sangue infetto, degli ospedali realizzati e aperti solo in seguito a lunghe battaglie delle community, dell’occupazione di Farmindustria per contestare le ciniche politiche sui prezzi e sull’accesso ai nuovi farmaci in sperimentazione che le case farmaceutiche stavano giocando sulla pelle delle persone. Gli anni 2000 sono, finalmente, quelli delle cure efficaci, delle battaglie per ottenere farmaci in grado di preservare la qualità della vita delle persone, di un rinnovato impegno delle associazioni con i servizi community-based, di una ripresa del dialogo con la comunità scientifica; fino alle altre grandi svolte: la conferma del principio U=U e la riprova dell’efficacia della PrEP. A cambiare poco è, però, l’atteggiamento delle istituzioni, incapaci di seguire le grandi innovazioni intervenute e di valorizzarle in direzione dell’obiettivo ONU per la sconfitta dell’AIDS entro il 2030. Prossime sfide, secondo Oldrini, saranno quelle di garantire un accesso equo a vaccini e farmaci anti-COVID e anti HIV, accelerare sui trattamenti long-acting, aggiornare la 135 e uniformare gli standard di cura nel nostro paese e poi rafforzare il ruolo di community e associazioni nella risposta all’HIV. E’ questa, del resto, una delle più forti raccomandazioni UNAIDS che giudica essenziale assicurare adeguate risorse alla società civile se si vogliono raggiungere gli obiettivi 2030: “L’Italia ha pienamente sottoscritto questi impegni –ha concluso Oldrini- ed è ora che li applichi” .
Grande interesse ha destato anche la ricerca LILA presentata da Maria Grazia Di Benedetto sull’allattamento in HIV dal titolo: “Breastfeeding: the ultimate U=U’s ultimate goal?” Al momento, dire alle donne con HIV di non allattare è ancora l’unica opzione? Si è chiesta la ricercatrice LILA, esaminando vari scenari in campo. Di Benedetto ha ricordato come nei paesi più poveri, l’allattamento al seno per le donne con HIV e in trattamento antiretrovirale, sia, da tempo, raccomandato e preferito rispetto all’allattamento con latte artificiale, che può implicare l’utilizzo di acqua non potabile ed essere ben più rischioso. Nei paesi a welfare avanzato continua, invece, a essere generalmente sconsigliato, visti, anche, i pochi dati a disposizione. “E’ necessario, tuttavia, cominciare a mettere in rete quelli esistenti per aprire nuove possibilità” è stata l’esortazione Di Benedetto che ha illustrato diversi dati ed esperienze. Si parte dai dati dello studio PROMISE che ha coinvolto Africa Subshariana e India. Tra le donne U=U, i casi di trasmissione per allattamento al seno sono precipitati sotto l’1%. Si tratta di un dato molto incoraggiante se si considera la scarsità di risorse e il difficoltoso accesso alle cure dei paesi teatro dello studio. A seguire, illustrato uno studio svizzero che, sulla base della letteratura scientifica, ha definito uno “scenario ottimale” in cui il rischio di trasmissione in allattamento da donna a figlio/a si è azzerato: aderenza alla terapia, regolare controllo clinico, una carica virale di HIV nel plasma soppressa sotto le cinquanta copie di RNA/ml. Ad aprire scenari innovativi sono anche le nuove linee guida britanniche e statunitensi, che, pur continuando a raccomandare il latte in formula per eliminare il rischio di trasmissione del virus, promuovono però un nuovo approccio, favorendo e sostenendo, la libera scelta della donna, sulla base di tutte le informazioni disponibili. Sul piatto, vanno posti anche i rischi derivanti dal mancato allattamento al seno sia per la madre, che il bambino, dal punto di vista fisico ma anche di benessere mentale. A tale riguardo, Di Benedetto ha illustrato gli esiti di uno studio condotto da LILA, NADIR Onlus e SIGO (società italiana ostetricia e ginecologia) su HIV e maternità
Il survey ha coinvolto sessantuno donne e ben cinquantotto hanno espresso tutta la loro insoddisfazione per aver dovuto rinunciare all’allattamento al seno, di fronte a indicazioni molto perentorie da parte dei medici. Le linee guida italiane, del resto, viaggiano spesso in notevole ritardo rispetto alle novità scientifiche e sono spesso improntate alla conservazione. “Le Linee guida italiane trascurano troppi fattori –ha detto Di Benedetto- dalla qualità del latte artificiale, alle difficoltà che, in alcuni contesti, può avere una donna nel dover spiegare i motivi per cui non può allattare”. Invece un altro approccio è possibile: “È tempo di discutere, di coinvolgere le donne, di informarle correttamente sulle tutte le possibilità in campo e di supportarne al meglio le scelte –ha concluso- Le donne sono pienamente capaci di scelte consapevoli”.
Tra i lavori presentati dalla LILA, c’è anche quello illustrato da Giacomo Dessì. Si tratta di “With a little help from our friends”,, campagna multimediale realizzata da LILA Cagliari per promuovere il concetto U=U, per sensibilizzare i giovani sull’uso del preservativo e per invitarli a fare il test. Sedici i video prodotti, coinvolgendo trentuno artisti locali, molti dei quali noti a livello mondiale come Paolo Fresu e Carolina Melis. Le opere realizzate evidenziano la varietà dei contenuti legati all’HIV, ogni artista, con il proprio linguaggio, si è concentrato su un tema: da U=U, all’’importanza di conoscere il proprio stato sierologico, alla promozione del femidom, alla lotta contro lo stigma, fino all’offerta del test HIV. Alcuni artisti hanno dato il loro contributo rivelandosi come persone che vivono con l’HIV.
La LILA ha poi fornito dati ed elementi per altri studi sociali, come quello presentato da Daniele Calzavara, coordinatore di Milano Checkpoint che ha illustrato come le community e le associazioni si siano attivate per sostenere le persone con HIV più vulnerabili durante la pandemia da COVID 19: consegna di pacchi alimentari, di farmaci, prescrizioni, sostegno a distanza e counselling tramite web, sostegno a distanza nell’esecuzione degli autotest per l’HIV, fornitura DPI, webinar sulla prevenzione nelle scuole. Tra le realtà che si sono attivate: Anlaids, Asa, Caritas, Villa Maraini, LILA tramite le sedi di Bari, Como, Livorno, Milano, Trento. In gran parte si è trattato di iniziative socialmente molto rilevanti e altamente innovative ma messe in atto senza alcun sostegno pubblico. “Il terzo settore ha confermato di essere fondamentale –ha detto Calzavara- ma ora deve essere adeguatamente sostenuto”.
NADIR Onlus, tramite il Presidente Filippo Von Shloesser, ha invece presentato il documento, elaborato, condiviso e firmato da ventisei associazioni italiane, tra queste anche la LILA, che indica i criteri condivisibili nella comunicazione medico – persona con HIV rispetto alla telemedicina.
Questo tipo di approccio, esploso in fase di COVID, presenta, infatti, opportunità interessanti, a patto che sia disciplinato e che ne venga contrattato l’uso. Tra i criteri imprescindibili indicati: il mantenimento, per i consulti a distanza, dello stesso infettivologo di riferimento, l’utilizzo della telemedicina come strumento complementare alla visita medica in presenza, l’applicazione solo dalla terza visita di persona, una volta stabilito il rapporto di comunicazione e verificato lo stato di stabilità virale e immunologica. Inoltre, tale sistema deve essere accettato e promosso dalla persona con HIV. Sono elencate, nel documento, anche le richieste improrogabili alle istituzioni, ai sistemi sanitari regionali e all’inclusione delle Organizzazioni HIV nell’advocacy per l’assistenza alle persone più vulnerabili.
Nella mattinata di giovedì 22 ottobre si è poi svolto un confronto accesso e aperto sulla riforma della legge 135/90 cui hanno partecipato tutte le ONG, esponenti della comunità scientifica e l’Onorevole Mauro D’Attis, primo firmatario di una proposta per una nuova legge, già incardinata in Commissione e, fin da subito contestata dalle associazioni.