LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della 21a Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche, che si terrà a Boston, negli Stati Uniti, dal 3 al 6 marzo 2014.
SECONDO BOLLETTINO - 6 MARZO 2014
Profilassi pre-esposizione a somministrazione mensile
Nuovi studi condotti sui primati sembrano dimostrare l'efficacia della profilassi pre-esposizione (PrEP) somministrata per via iniettiva.
Si tratta di due diverse sperimentazioni da cui emerge come inoculando un inibitore dell'integrasi sperimentale denominato GSK744LA si possa ottenere una protezione a lungo termine dal virus dell'HIV.
Nel primo studio, un'unica somministrazione si è dimostrata in grado di fornire protezione per in media otto settimane. Nel secondo, invece, è risultato che nessuno dei primati a cui era stato inoculato il farmaco contraeva l'SHIV (un virus ibrido che riproduce nei primati il corso dell'infezione da HIV); il farmaco si manteneva inoltre a livelli tali da poter fornire protezione fino a cinque settimane dopo l'ultima somministrazione. Sulla base di questi risultati, gli autori ipotizzano che un'iniezione di questo farmaco una volta al mese possa essere sufficiente a proteggere dall'infezione da HIV.
Le prime sperimentazioni volte a verificare nell'uomo l'efficacia del GSK744LA come misura di profilassi pre-esposizione avranno inizio nel corso di quest'anno.
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Tasso di HIV tra i giovani MSM afro-americani
Ogni anno, oltre il 12% dei giovani afro-americani maschi che fanno sesso con maschi (MSM) contrae l'HIV: è il risultato di uno studio effettuato ad Atlanta, in Georgia (Stati Uniti).
È un dato paragonabile a quello osservato nelle peggiori epidemie nei contesti poveri.
La ricerca ha interessato 562 MSM sia bianchi che neri di età compresa tra i 18 e i 39 anni, sieronegativi all'inizio dello studio: per quantificare il loro rischio di contrarre l'HIV, sono stati monitorati per un lasso di tempo di oltre due anni.
Nel periodo indagato hanno contratto l'HIV il 6,6% dei partecipanti neri, contro solo l'1,7% dei bianchi.
Nel gruppo dei partecipanti neri, l'incidenza dell'HIV si è rivelata particolarmente elevata in quelli dai 25 anni in giù (il 12%); nei bianchi, il dato corrispondente non superava l'1%.
In base a questi dati, gli autori hanno calcolato che un MSM nero che iniziasse ad avere rapporti sessuali all'età di 18 anni avrebbe il 60% di probabilità di contrarre l'HIV entro i 30.
A spiegare questo tasso così elevato concorrono vari fattori, tra cui il fatto che questi giovani tendono ad avere rapporti solo con altri membri della comunità nera, spesso non sono coperti da assicurazione sanitaria e sono ad alto rischio di carcerazione.
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Mortalità materna in Sudafrica
In Sudafrica è stato registrato un calo dei tassi di trasmissione materno-fetale: un risultato a cui però non corrisponde un dato altrettanto positivo in termini di riduzione della mortalità materna. È quanto emerge da uno studio condotto presso un ospedale di Johannesburg.
Gli autori hanno analizzato dati raccolti in un arco di tempo di oltre 15 anni. Tra il 1997 e il 2012, ogni anno sono nati nell'ospedale tra i 17.000 e i 23.000 bambini.
Circa il 23% delle donne che hanno partorito nel 2012 erano sieropositive, contro il picco di quasi il 31% nel 2004.
Nel periodo abbracciato dallo studio si sono verificati 589 decessi di donne che avevano appena partorito, di cui oltre un terzo non dovuti a complicanze legate alla gravidanza o al parto. La percentuale di donne sieropositive decedute è salita dal 54% nel periodo 2003-08 al 66% nel biennio 2011-12: un dato notevolmente superiore a quello della prevalenza dell'HIV nella popolazione locale.
Dall'analisi dei dati emerge che la percentuale di mortalità materna dovuta all'HIV era rimasta invariata dal 2007, e che oltre tre quarti delle donne sieropositive decedute non avevano mai assunto la terapia antiretrovirale.
È risultato che la maggior parte dei decessi (il 54% nel biennio 2011-12) di madri sieropositive non era legato alla gravidanza, bensì a altri fattori, prime tra tutte infezioni respiratorie e tubercolosi. Tra le cause di morte legate alla gravidanza, invece, le più comuni sono state emorragie e sepsi.
Nel periodo dello studio, la percentuale di donne che si sono sottoposte al test HIV è aumentata dal 54 al 66%, ma è un dato che resta comunque molto inferiore a quello necessario per eliminare la trasmissione verticale dell'HIV (quella appunto da madre a figlio, durante la gestazione o il parto).
Il tasso di trasmissione verticale è calato dal 7 all'1,5%: a fronte di questo, però, sono ancora pochissime le donne che assumono la ART (nel 2011-12 erano soltanto il 23%).
I tre quarti delle donne decedute presentavano una conta dei CD4 inferiore alle 200 cellule/mm3. Una percentuale di decessi HIV-correlati ancora così elevata sembra imputabile a un impegno carente nella fornitura di cure e trattamento per l'HIV.
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Il trattamento: antiretrovirali di prima linea
Storicamente, nelle linee guida per il trattamento dell'HIV si raccomanda una combinazione di antiretrovirali di cui due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI) più un terzo farmaco di classe diversa, per esempio un inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa (NNRTI) o un inibitore della proteasi.
Gli NRTI, però, in alcuni pazienti causano effetti collaterali o possono rivelarsi tossici. L'avvento di nuove classi di antiretrovirali consente maggiore margine per elaborare regimi terapeutici privi di questi farmaci.
Alla Conferenza è stato presentato uno studio in cui si è sperimentato su pazienti che non avevano mai assunto il trattamento dell'HIV un regime privo di NRTI, composto da raltegravir (Isentress) più darunavir potenziato (Prezista): la combinazione è risultata efficace quanto un regime a base degli NRTI tenofovir e FTC (i principi contenuti nel Truvada).
La sperimentazione, condotta in 15 diversi paesi europei, ha interessato 805 pazienti sieropositivi naïve al trattamento. I partecipanti sono stati randomizzati per assumere o 400mg di raltegravir due volte al giorno oppure il Truvada una sola volta al giorno, sempre in associazione con darunavir potenziato con ritonavir. Il follow-up è stato di 96 settimane.
Tra i criteri adottati dai ricercatori per definire il fallimento terapeutico sono stati inclusi parametri come lo switch terapeutico dovuto a una risposta insufficiente prima della 32° settimana e una carica virale superiore alle 50 copie/ml dopo la 32 settimana. A 96 settimane dall'inizio del trattamento, in base a questi criteri, il raltegravir si è dimostrato non inferiore al Truvada. La percentuale di rispetto di tali criteri si è attestata al 17% per il braccio del raltegravir e 14% per il Truvada, ma non si tratta di uno scarto statisticamente rilevante.
Sulla base di questi risultati, gli autori hanno concluso che il regime composto da raltegravir più darunavir/ritonavir "può rappresentare un'alternativa" a quelli composti da tenofovir/FTC più darunavir/ritonavir.
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Resoconto completo su aidsmap.com
Webcast della sessione sul sito ufficiale della Conferenza
Il trattamento: nuove classi di farmaci
Il trattamento anti-HIV si compone di farmaci di diverse classi, che vanno a interferire con il ciclo vitale del virus nei suoi diversi stadi. Ancora non esiste però un farmaco specifico per il primissimo stadio, ossia che impedisca al virus di agganciarsi alla cellula ospite.
L'inibitore attualmente noto come BMS-663068 è stato sperimentato in un trial multinazionale condotto su 253 pazienti che in precedenza si erano già sottoposti al trattamento. I partecipanti avevano una conta dei CD4 mediana attorno alle 230 cellule/mm3, e molti arrivavano da un fallimento terapeutico con un trattamento di prima o seconda linea.
Circa la metà presentava un ceppo di HIV con almeno una grave mutazione genetica che lo rendeva farmacoresistente; per la sperimentazione, però, il virus doveva essere ancora suscettibile a raltegravir (Isentress), tenofovir (Viread; presente anche in alcune co-formulazioni) e atazanavir (Reyataz).
I partecipanti sono stati randomizzati in cinque gruppi: quattro che assumevano il farmaco oggetto della sperimentazione, in diversi dosaggi; e un gruppo di controllo che assumeva invece atazanavir potenziato con ritonavir. Tutti e cinque i gruppi assumevano inoltre raltegravir e tenofovir.
Alla 24° settimana dall'inizio del trattamento, tutti e cinque gruppi hanno ottenuto risultati simili: sono riusciti ad abbattere la carica virale al di sotto delle 50 copie/ml l'80% di quelli che assumevano l'inibitore con un dosaggio di 400mg due volte al giorno; il 69% di quelli che assumevano 800mg due volte al giorno; il 77% di quelli che assumevano 600mg una volta al giorno; e il 72% di quelli che assumevano 1200mg due volte al giorno; nel braccio di controllo con atazanavir la percentuale è stata del 75%.
Il BMS-663068 si è dimostrato generalmente ben tollerato ad ogni dosaggio, e non sono stati rilevati problemi circa la sua sicurezza.
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HIV e sopravvivenza al tumore
Un nuovo studio proveniente dagli Stati Uniti dimostra che nelle persone sieropositive la mortalità per tumore è più alta che in quelle sieronegative.
Gli autori non hanno saputo indicare con precisone per quale motivo, ma ritengono che si possa in parte ricollegare a fattori come le disuguaglianze in termini di assistenza sanitaria e un effetto HIV-correlato.
Oggi molte persone sieropositive possono sperare di avere una normale aspettativa di vita. Ma studi precedenti avevano già evidenziato come i tassi di incidenza di alcuni tumori non-AIDS correlati risultassero più elevati nella popolazione sieropositiva.
Gli autori di questo studio hanno dunque cercato di stabilire se l'HIV incidesse sulla sopravvivenza di un paziente a cui viene diagnosticato un tumore.
A questo scopo hanno raffrontato i tassi di sopravvivenza tra pazienti sieropositivi e -negativi a cui era stato diagnosticato un tumore tra 14 molto comuni: quello dell'orofaringe, del colon-retto, dell'ano, del fegato, del pancreas, della laringe, del polmone, della pelle (melanoma), della mammella, della cervice uterina, della prostata, del rene e delle vie urinarie, linfoma di Hodgkin e linfoma diffuso a grandi cellule B.
I tassi di mortalità dei pazienti sieropositivi sono risultati più elevati in nove di questi tumori. In particolare, del 270% per il tumore alla mammella, dell'80% per quello alla prostata e del 25% per quello al polmone.
Il motivo? Forse procedure di screening non adeguate e il basso tasso di presa in carico e inizio delle cure. Si è inoltre ipotizzato che tra le possibili cause possano annoverarsi anche una più scarsa risposta alla chemioterapia e l'interruzione delle cure per l'HIV.
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Allegato: CROI 2014 - Secondo Bollettino