Disturbi neurocognitivi e HIV: il professor Andrea Antinori risponde alle nostre domande

Andrea Antinori 2Il fenomeno dell’invecchiamento preoccupa le persone con HIV e preoccupano, soprattutto, le patologie neurocognitive che possono insorgere. Il professor Andrea Antinori, infettivologo, Direttore Malattie Infettive dell'IIRCCS INMI Lazzaro Spallanzani di Roma, è uno dei maggiori esperti in materia. A lui abbiamo chiesto di aiutarci a comprendere meglio questo problema. 

Professore, qual è la portata di questo fenomeno tra le PLHIV?

I dati che provengono dall’osservazione di questa fascia di popolazione in Europa ci dicono oggi che non più di una persona con HIV su cinque mostra deficit di tipo cognitivo e che, per più della metà di casi, si tratta di un "deficit asintomatico”. Parliamo dunque di un disturbo di alcune funzioni (memoria, abilità motoria, alcune abilità esecutive) che non ha però  interferenze importanti sulla quotidianità, ossia sulla performance lavorativa, sulla vita di relazione, sulla capacità di attendere alle relazioni quotidiane. Quindi: non più del 20% mostra deficit cognitivi e di questo 20% più della metà è di tipo asintomatico. Siamo cioè ben lontani da uno scenario di patologie frequenti e altamente invalidanti come Parkinson, Alzheimer e altre condizioni neurodegenerative. In HIV solo il 2-3% di chi ha oggi un difetto cognitivo sviluppa queste patologie più gravi, oggi denominate demenze, che corrispondono allo stadio più avanzato della malattia. Il fatto che i pazienti siano in gran parte in terapia, che abbiano recuperato un buon livello di CD4, che la gestione complessiva comporti un miglioramento della qualità della vita, fa sì che questo problema, rispetto a trent'anni fa, si sia nettamente ridimensionato. Va detto con chiarezza che la terapia non ha eliminato completamente questo problema ma i passi in avanti sono comunque molto importanti.

E’ possibile fare un raffronto tra l’incidenza di queste patologie nella popolazione generale e nella popolazione con HIV?

I dati di confronto ottenuti da alcuni studi, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, ovviamente tra gruppi omogenei per fattori di rischio, ossia stessa età, stessa incidenza di depressione o di altre caratteristiche, ci dicono che in HIV questo rischio è maggiore rispetto alla popolazione generale comparabile.

Di quanto è maggiore questo rischio? Si riesce a quantificare?

Si tratta di un aumento significativo; però ripeto: parliamo comunque di un numero limitato di soggetti interessati e di manifestazioni, in gran parte, sotto la soglia clinica, riscontrabili, cioè, soltanto con dei test accurati e prive di rilevanti conseguenze sulla vita quotidiana. La persona che ne è portatrice nemmeno si accorge di esserlo, non ha questa percezione, non registra deficit di performance: si tratta, in gran parte, di problemi che emergono solo se uno specialista ci sottopone a un test.

Quali sono i fattori di rischio che più possiamo associare all’insorgenza di questo tipo di patologie?

In primo luogo l’età, come per tutta la popolazione generale. Il problema dell’aging in HIV ha poi una sua complessità legata al fatto che, per una serie di meccanismi, l’infezione può portare a fenomeni d’invecchiamento precoce. Poi ci sono le comorbosità legate all’età che  in HIV sono più frequenti e si verificano in età più giovane rispetto alla popolazione sieronegativa. Un altro fattore di rischio sono i lasciti di un’immunodeficienza pre-esistente: potrei aver scoperto tardi l’infezione, aver sperimentato uno stadio di immunodeficienza avanzata e prolungata o la malattia conclamata, cosa che ancora succede per una quota considerevole delle nuove diagnosi. Oggi i dati di sorveglianza ci dicono che circa il 20-25% dei soggetti HIV di nuova diagnosi è già in una condizione molto avanzata di immunodeficienza e che circa la metà è già sotto la soglia cirtica dei 350 CD4. Questo non vuol dire poi non si possa recuperare una buona condizione con l’inizio della terapia, con la normalizzazione dei livelli di viremia e con il recupero dei CD4, tutti fattori che riducono il rischio. Tuttavia, i soggetti che hanno, o hanno avuto, un nadir basso di CD4 sono esposti ad un rischio potenzialmente maggiore di invecchiamento problematico. C’è poi un terzo gruppo di fattori a cui si dà oggi molta più importanza di ieri e sono i fattori legati alle malattie vascolari, cardiovascolari (infarto, angina, malattie coronariche, ecc) e cerebro-vascolari (ictus, ischemia cerebrale, difetti di perfusione cerebrale, vasculopatie dei piccoli vasi cerebrali). Si tratta di patologie che non sono tipiche dell’HIV ma che, anzi, sono una delle principali cause di morbosità della popolazione anziana, al di là dell’HIV. I fattori di rischio che alimentano queste patologie, come il diabete, l’aumento di lipidi nel sangue, il fumo, l’appartenenza al sesso maschile, l’ipertensione, tendono ad aumentare le probabilità di disturbi cognitivi. Molte delle forme patologiche cognitive che osserviamo in questi anni sono legate a fattori di rischio cardiovascolari .

Cosa si può fare per prevenire o contenere questi rischi?

Il fatto positivo è che buona parte di questi elemtni di rischio sono controllabili e/o modificabili: il fumo, gli stili di vita, il colesterolo, l’ipertensione, il diabete. Tenere sotto controllo questi fattori, anche i con i farmaci, riduce ovviamente sia i rischi cardiovascolari, sia quelli cerebro-vascolari in cui rientrano molti dei deficit cognitivi che possono interessare le persone con HIV. Ripeto, quando parliamo di deficit cognitivi, non dobbiamo pensare solo all’ictus che ne è la manifestazione estrema, dagli esiti spesso invalidanti ma a tutta una serie di deficit dei piccoli vasi cerebrali che possono causare una ridotta performance cognitiva con disturbi della memoria, delle abilità motorie o di quelle esecutive.  

Si possono prospettare modelli più avanzati per la diagnosi precoce dei disturbi cognitivi? 

Questo è uno dei grandi problemi in tema di disturbi cognitivi e non è specifico dell’HIV ma riguarda tutta la popolazione. Fare la diagnosi di un deficit cognitivo è difficile perché ci vogliono test, non costosi ma specifici, lunghi, vincolati alla presenza di un esperto (neurologo, neuropsichiatra, neuropsicologo) e dunque si tratta di modalità non proponibili su vasta scala; Si stanno studiando modalità più rapide e autogestibili di test di screening ma non sono al momento sufficientemente accurati. Tra gli strumenti emergenti possono essere molto utili i PROs: Patient Reported Outcomes. Si tratta di questionari che partono dall’aderenza, dalla qualità della vita, dalla salute mentale ed esplorano anche la sfera cognitiva. Tuttavia non c’è ancora uno strumento di screening accurato che possa permettere rapidamente di stabilire se una persona abbia o meno un deficit cognitivo.

Quanto possono interferire o influire alcuni fattori sociali e/o ambientali sullo sviluppo di talune patologie? Lei, nella sua relazione accennava, ad esempio, alla depressione.

La depressione è il principale fattore di confondimento per una diagnosi dei disturbi cognitivi. Una persona depressa, anche modicamente depressa, può facilmente passare per una persona con disturbi cognitivi perché la depressione può alterare delle perfomance esecutive e quindi i relativi test. Spesso, infatti, tali test vengono evitati su persone gravemente depresse perché questa condizione potrebbe inficiarne l’affidabilità e dunque falsare la diagnosi. Anche l’abuso di alcol, il ricorso a sostanze psico-attive, gli psicofarmaci possono alterare i test attribuendo ad una persona disturbi cognitivi che in realtà non ha.

Lo Spallanzani è un osservatorio nazionale privilegiato: qual è lo stato generale di benessere delle persone con HIV e quali altri traguardi si possono raggiungere?

Un primo dato realistico e rassicurante è che in Italia la stragrande maggioranza dei soggetti, ad oggi in trattamento ART, ha una viremia controllata: il 90%, forse anche il 95% delle persone che si curano sono in una condizione di soppressione della carica virale.

Su questo aspetto siamo dunque in linea con le indicazioni ONU?

Assolutamente sì. Questo vuol dire che i nostri pazienti sono ben seguiti e che gli infettivologi italiani hanno acquisito grande competenza ed esperienza nel gestire i trattamenti. Inoltre i farmaci di nuova generazione sono molto più efficaci e, soprattutto, meglio tollerati consentendo un’aderenza molto più alta. Chi segue correttamente la ART, nella stragrande maggioranza dei casi, ottiene oggi un successo terapeutico e questo è un dato importantissimo. Restano però dei problemi fondamentali.

Quali?

Il primo è il “sommerso”. Ci sono persone che non accedono alle cure perché non sanno di essere HIV positive. Le stime più accurate riferiscono di circa 15mila soggetti che, essendo inconsapevoli del loro stato, ritardano la diagnosi e possono arrivare ad uno stadio avanzato di malattia, il che li espone a gravi rischi per la salute. Inoltre è sempre complicato iniziare un percorso terapeutico in questa fase. Viste le potenzialità offerte dalle cure, non è accettabile che un 15-20% delle nuove diagnosi avvenga, tuttora, in fase di AIDS. Iniziare una terapia tempestivamente, con un numero di CD4 ancora buono, offre ora grandi prospettive di salute, sicurezza, efficacia. L’abbattimento del sommerso resta, dunque, una sfida importantissima ancora da vincere. Un altro aspetto riguarda il fatto che, non essendo l’HIV un’infezione eradicabile, chi si cura deve farlo per tutta la vita. Iniziamo ad avere a che fare con pazienti che assumono farmaci da trent’anni e che potenzialmente possono arrivare a cinquant’anni di ART e, dunque, ci dobbiamo porre il problema degli effetti a lungo termine.

E qui torniamo al punto di partenza, come gestire la salute delle persone con una storia così lunga di terapie?  

Occorre ripetere che oggi i trattamenti sono molto più sicuri di quelli di vent’anni fa, e anche di cinque anni fa, perché il progresso da questo punto di vista è continuo. Potremmo addirittura dire che l’efficacia di questi farmaci è stata massimizzata mentre gli aspetti su cui si continuano a registrare miglioramenti sono proprio quelli della tossicità e della tollerabilità. Tuttavia, oggi sappiamo che il paziente con HIV in trattamento può essere colpito da una serie di comorbidità non infettive, cioè non generate da batteri o virus, in misura più frequente rispetto alla popolazione generale. Sappiamo anche che molte di queste patologie sono age-related, ossia correlate all’invecchiamento. Una buona gestione del paziente HIV oggi non può più quindi fermarsi al controllo dell’efficacia della terapia ART, ma deve puntare ad un monitoraggio globale della salute ed, eventualmente, all’armonizzazione di terapie concomitanti.

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