La nostra esistenza è immersa nella statistica. Ogni giorno leggiamo percentuali e stime su qualsiasi argomento, dal cibo all’anima. Se poi la statistica si occupa di medicina e salute il dato diventa sostanza di vita e elemento fondante della politica. L’Hiv ha un sistema di controllo statistico che si chiama Sorveglianza. E’ istituito da due decreti, uno per i casi di Aids, risalente al 1986 e uno per i casi di Hiv del 2008. Seguono iter diversi ma dovrebbero raggiungere lo stesso risultato: raccontarci in questo paese quanta gente viva con l’hiv e quante persone raggiungano lo stadio dell’aids. Confermarci che quei dati, che tanto piacciono ai media, dei circa 4000 nuovi casi all’anno siano così attendibili da poter costruire su questi l’identikit di una nazione e delle sue politiche sanitarie. Contare la salute per contare cosa fare. Ma la nostra inchiesta fa emergere una realtà ben diversa. E una pericolosa rimozione politica. Per commentarla abbiamo incontrato Carla Rossi, una docente di statistica in campo biomedico e sociale all’Università di Tor Vergata a Roma che il mondo Hiv lo conosce bene.
Professoressa Rossi, il sistema di sorveglianza indica che in Italia nel 2014 ci sono stati 3695 nuovi casi di Hiv. Nel 2013 erano 3811. Non abbiamo alcun dato riguardante quanti test vengano somministrati nel nostro paese. Quanto considera possibile impostare politiche sanitarie senza essere a conoscenza di un dato così sostanziale?
Statisticamente il numero assoluto dà delle informazioni, ma se non c’è la possibilità di rapportarlo al numero di casi osservati non dà una indicazione del fenomeno. Oggi non conosciamo la proporzione della nuova popolazione con Hiv rispetto a quella che ha fatto il test ed è pesante non saperlo. L’osservatorio è stato studiato in questo modo, riceve le segnalazioni dei casi positivi ma non di quelli negativi. Chi fa le politiche sanitarie sfrutta il fatto che siano sempre circa 4mila, il dato sembra costante e non genera allarme.
Se però sapessimo che contemporaneamente diminuiscono i test effettuati, l’allarme ci sarebbe eccome. Quindi effettivamente non si può costruire una politica sanitaria in maniera razionale senza un dato sostanziale. Il fatto che si mantenga sempre uno stesso ordine di grandezza non fa allarmare la sanità pubblica perché dà l’idea di essere sotto controllo, anche se non sappiamo il denominatore perché è chiaro che 4000 casi se rapportati a solo 8000 test è una cosa, se invece sono 100mila è tutta un’altra.Bisognerebbe quantomeno capire se c’è un maggior disinteresse verso l’Hiv per cui meno persone si fanno fare le analisi. Ciò vorrebbe dire che i 4000 casi annui valgono di più. Ma purtroppo oggi non si può sapere.
C’è da dire che gli stessi responsabili del sistema di sorveglianza parlano di dati certamente sottodimensionati. La dott.ssa Barbara Suligoi, direttrice del Centro Operativo Aids dell'Iss afferma in un’intervista che ci ha rilasciato per questa inchiesta che la sovrapposizione di due analoghi sistemi di sorveglianza istituiti da due leggi diverse possono portare a una perdita stimabile fino al 10% delle nuove diagnosi. Ma anche qui non è ben chiaro su quali basi questa percentuale venga individuata. Sembra comunque assodato che gli operatori sanitari tendano a registrare i nuovi casi solo in un registro piuttosto che in entrambi. Dal suo punto di vista ritiene che una sottostima del 10% sia un margine statisticamente ammissibile?
Anch’io nella mia esperienza ho notato che gli operatori tendono ad usare un solo registro. Perciò è sicuramente giusta l’osservazione. La dottoressa Suligoi ritiene che la sottostima sia fino al 10%? Potrebbe essere anche di più. Se non è stata fatta un’indagine su questo – ed è quasi impossibile farla –non c’è una base scientifica per dire che sia il 10%. Avendo due registri è facile che, per disattenzione, non vengano completati entrambi. Questo è un aspetto preoccupante e sarebbe quindi ragionevole unire i registri.
I centri di raccolta dei dati della Sorveglianza sono gli Osservatori Regionali che poi stilano annualmente un rapporto. In quello della regione Toscana abbiamo notato che il numero dei nuovi casi di Hiv è spesso replicato. Ad esempio tra gli uomini sono segnalati 219 casi nel 2011 e sempre 219 nel 2012, così pure 233 nel 2013 e sempre 233 nel 2014. Una ripetizione che abbiamo ritrovato anche nel centro Mts di viale Jenner a Milano, in cui le nuove infezioni da Hiv sono state 75 sia nel 2013 che nel 2014. E' statisticamente possibile che si abbiano tali ripetizioni, di anno in anno?
E’ un po’ curioso però potrebbe anche essere. D’altra parte questi numeri sono anche molto vicini tra loro: 233 e 219 danno un’informazione quasi di costanza. Siccome per le donne c’è una differenza, lo prenderei per buono quel dato.
ll sistema di sorveglianza del Lazio, in cui sono state segnalate 598 nuove diagnosi di Hiv nel 2014, filtra i nuovi casi di Hiv segnalati dai diversi laboratori sul territorio regionale sulla base di un algoritmo che esclude le nuove diagnosi di persone in cui coincidano sesso, data e luogo di nascita. Ma in una città grande come Roma è plausibile che esistano più persone dello stesso sesso nate nello stesso giorno con una diagnosi di Hiv. Ne consegue un alto rischio di sottonotifica. Si tratta di un dato che può essere considerato comunque valido?
Roma è una città molto grande per cui questo sistema è effettivamente a rischio. Nel registro potrebbe venire eliminato qualche caso – con stesso sesso, comune e data di nascita - che invece si riferisce a persone diverse. Comunque non sarà un numero alto, saranno pochi. Siccome il Lazio ha molti casi, se anche se ne escludessero 10 non cambierebbe molto l’analisi del fenomeno.
Sulla base di queste osservazioni possiamo affermare che il numero di nuove infezioni sia effettivamente ben superiore ai 4000 segnalati ogni anno?
Si. Anche perché non tutte le persone con l’infezione fanno il test. Io per esempio mi occupo di droghe e vedo che molte persone che vanno al Sert non vogliono fare il test, anche se sono a rischio. Quindi sfuggono. Questo ci viene anche rimproverato dall’osservatorio europeo: facciamo poche analisi tra chi consuma droga. C’è una parte di popolazione che pur essendo a rischio e con infezione, il test non lo fa. Quei dati rappresentano l’andamento del fenomeno solo tra le persone più attente che si fanno esaminare.
La sorveglianza così si perde proprio i gruppi più a rischio?
Penso di sì. Sono le persone più a rischio in generale che tendono a non farsi il test e poi assumere i farmaci. Se una persona è tossicodipendente spesso non è attenta a prendere i farmaci per l’Hiv.
La statistica potrebbe aiutare a combattere l’Hiv?
In Italia la statistica per chi fa politica è una cosa strana che non viene molto seguita. Non c’è l’abitudine di capire dal punto di vista statistico come sta andando un fenomeno per poi intervenire. I primi anni dell’Aids era una cosa così sconvolgente che hanno fatto programmi di prevenzione, per esempio l’osservatorio del Lazio ne faceva molta nelle scuole. Adesso non credo. In Italia si lavora sull’emergenza soprattutto a livello politico. L’Aids non è più un emergenza, poiché si cura, quindi è calata l’attenzione, come sulla droga. Oggi ci sono altre emergenze, per esempio l’immigrazione. E’ lì che vanno i soldi, che non sono mai molti.