La terza donna di questa storia è la Legale dello studio di Varese “Bulgheroni e Brumana avvocati associati” che ha seguito, e vinto, il procedimento per la riattribuzione anagrafica di Graziella, facendo anche valere il regime di gratuito patrocinio cui, la loro assistita aveva diritto.
Si chiama Alessandra Brumana, esperta in diritto di famiglia e diritti della persona, Presidente della sezione Varese di ONDIF, Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia. Soprattutto però, l'avv. Brumana fa parte di “Rete Lenford, avvocatura per i diritti LGBTI” una rete di avvocati, giuristi, studiosi di questioni LGBTI, che, dal 2007 si occupa di assistere legalmente le persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali ed intersex, contro ogni forma di discriminazione ma, anche, di seguire e migliorare l’evoluzione giuridica di questa sfera del diritto della persona. E’ anche grazie al contributo di Rete Lenford se, nel 2015, si arriva all’importante svolta legislativa che ha permesso a tante persone la rettificazione anagrafica senza che si rendesse più necessario l’intervento chirurgico.
“Ho iniziato a seguire la storia di Graziella proprio mentre cominciavo a collaborare con Rete Lenford –racconta Alessandra Brumana - dal punto di vista umano, professionale, personale è stata davvero una vicenda che mi ha dato tantissimo, che mi ha arricchito, anche dal punto di vista dell’attenzione sociale, perché cominci a capire cosa significhi tutto ciò per la vita delle persone. E poi Graziella è una persona che ti coinvolge, anche dal punto di vista emotivo”. L’ avvocata Brumana, ha messo a segno un risultato, a suo modo, storico nella provincia di Como: ottenere il primo cambio di genere anagrafico senza, appunto, necessità di un cambiamento chirurgico del sesso.
Ed è a lei che ci affidiamo per saperne di più, nella speranza di essere utili a tanti e tante ma anche per comprendere verso quali direzioni possa essere migliorata la normativa.
“A disciplinare in Italia questa materia –ci spiega- è la legge 164 dell’1982 (norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) che, per anni, è stata interpretata nel senso di prevedere, sempre e necessariamente, l'intervento chirurgico per poter consentire la riattribuzione anagrafica. Nel 2015, interviene a fare chiarezza nell'interpretazione della legge una sentenza importantissima e sofferta, frutto di tante battaglie e del lavoro di Rete Lenford”.
Si tratta, come ci spiega l'avv. Brumana, della sentenza della Corte di Cassazione n° 15-138/2015 che, in sostanza, riconosce come il processo di transizione di una persona sia, in via prioritaria, un processo psicologico, personale, relazionale, che non necessariamente si deve concludere con un cambiamento della morfologia genitale per via chirurgica: “Finalmente è stato preso in considerazione l’aspetto più importante della transizione e cioè quello che la persona sente di essere -dice- è più che sufficiente, dunque, che la persona abbia concluso il proprio processo interiore”.
Nell’ottobre del 2015 anche la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme in questione, giungendo alle medesime conclusioni con la sentenza 221/15.
Ci fa tuttavia notare l'avv.Brumana come, oltre all’intervento migliorativo del 2015, la legge abbia subito anche modifiche legislative che ne hanno, invece, paradossalmente, complicato l’applicazione. Nella formulazione originaria della legge si prevedeva, infatti, per questo tipo di istanze “la volontaria giurisdizione”: “Un procedimento giudiziario più snello –spiega- che coinvolge, per la maggior parte delle volte, solo ricorrente e giudice, con più libertà di forma e minori spese. Gli interessati presentavano un ricorso per la riattribuzione e, salvo la decisione del Giudice di disporre una perizia sull’istante, il procedimento si concludeva con un numero minore di udienze e, decisamente, meno incombenze processuali".
E poi cosa è accaduto?
Nel 2011 è ’ intervenuto un decreto legislativo, il 150 del 2011 che ha ricondotto la materia, precedentemente devoluta alla volontaria giurisdizione, al processo ordinario vero e proprio.
Cosa ha comportato questo cambiamento?
Trattandosi di un vero e proprio processo è prevista una controparte e dunque occorre un atto di citazione. A essere citati devono essere, coniuge e figli, se ce ne sono. Nel caso di Graziella non essendo presenti parenti diretti, il contraddittorio è il Pubblico Ministero. Uno degli aspetti del processo ordinario è che, a tutela delle parti coinvolte, ci sono dei tempi e delle procedure che non si possono comprimere: atti di citazione, deposito di memorie, deposito delle conclusionali. Nel nostro caso, almeno, il PM si è sempre rimesso alla decisione del Giudice del Tribunale di Como e non ha proposto appello.
Com' è proseguito l’iter?
C’è stata una prima udienza,(denominata di comparizione delle parti), in cui Graziella ha risposto con molta appropriatezza alle domande del giudice, il quale, come accade comunemente, ha poi disposto una CTU, Consulenza Tecnica d’Ufficio, con due obiettivi principali: accertare quale fosse il percorso di transizione di Graziella, se si fosse concluso e se vi fossero problemi o patologie psichiatriche. Sono stati così nominati due esperti: una psichiatra e un endocrinologo, incaricato di valutare, tra l’altro, i risvolti relativi alla procreazione, gli effetti sul fisico dei pregressi trattamenti di femminilizzazione, lo stato delle terapie ormonali, precedentemente interrotte per altri problemi di salute. La LILA , a sua volta, ha messo a disposizione della ricorrente due tecnici di parte. E’ così partita la CTU. La nostra cliente si è esposta molto, si è messa in gioco. Dopo vari incontri i due medici hanno deciso di procedere a una relazione finale congiunta, chiara e ben strutturata, in cui si dichiarava concluso il processo di transizione e che l'identità femminile di Graziella era da considerarsi consolidata anche senza intervento chirurgico.
Considerando tutti i passaggi, che tempi ha avuto il procedimento, dall’attivazione dell’istanza alla sentenza?
Il giudizio è stato introdotto nel 2018. Ad allungare i tempi, in genere è proprio la CTU, la Consulenza Tecnica d’Ufficio, che viene quasi sempre disposta. Una volta depositati la relazione dei periti, le note conclusive con i richiami alla giurisprudenza più recente e tutti i documenti necessari, abbiamo atteso la sentenza e i tempi necessari al suo passaggio in giudicato, il che è avvenuto nel gennaio 2020. Ricordo che, affinché una sentenza “passi in giudicato” , devono trascorrere almeno sei mesi dalla pubblicazione o un mese dalla notifica alla controparte. Se entro questi termini , la controparte non propone appello, la sentenza è definitiva e la cancelleria ne rilascia la dovuta attestatazione. Una volta ottenuto anche il via libera della cancelleria, si può andare presso il comune d’origine e chiedere il cambiamento del certificato di nascita. Con quello si può ottenere la modifica di tutti gli altri documenti. Nel nostro caso, il lockdown dovuto al Covid ha allungato ulteriormente i tempi ma, alla fine ce l’abbiamo fatta. Le sentenze che in altre parti d’Italia ci avevano preceduto, del resto, ci avevano già aperto una bella strada.
Secondo Lei, ci sono degli aspetti della legge da cambiare?
Assolutamente sì. L’urgenza principale, sulla quale convergono tutte le proposte migliorative, è quella di "de-giurisdizionalizzare" le istanze di riattribuzione anagrafica. Invece con il decreto del 2011 la situazione è addirittura peggiorata. Non ha davvero senso sottoporre un diritto così personale ad un processo ordinario con tutti gli aspetti di complessità che comporta. E’ comprensibile che ci si ponga il problema di salvaguardare, oltre ai diritti della persona, anche la certezza delle relazioni giuridiche, ad esempio evitando più cambi d’identità da parte di una stessa persona, questo però potrebbe avvenire con altre procedure. Peraltro, al tribunale si deve ricorrere comunque, con o senza intervento.
Per esempio? Che tipo di alternativa si potrebbe proporre?
Una buona proposta potrebbe essere quella di formare degli esperti e di istituire dei centri ad hoc per l’assistenza alla transizione, esterni dunque al sistema giudiziario, che possano essere poi abilitati a certificare il percorso fatto dalle persone, un po’ come accade per i servizi sociali. In questo modo i giudici non si sentirebbero spinti a disporre ulteriori indagini con le CTU. Ad esempio, Graziella è stata, per diversi anni, in terapia da uno psicologo e in carico ai servizi di supporto della LILA. Se questo percorso fosse stato riconosciuto, forse, ci saremmo risparmiati i tempi lunghi della consulenza. La CTU di Graziella alla fine è durata un anno, tra incontri, cure ormonali da riprendere e farmaci da armonizzare. Nei rari casi in cui i giudici non dispongono le CTU, è perché si sentono tutelati da relazioni, ad esempio, di strutture ospedaliere. Se si creasse una rete di servizi pubblici accreditati, supportati anche dai servizi di associazioni e community, il processo sarebbe più veloce e meno pesante.
Graziella ci raccontava, infatti, anche del risvolto un po’ invasivo di questi accertamenti…
Sì, è proprio la natura del procedimento che sembra imporre questa invasività e penso che tutto ciò si debba assolutamente evitare. La persona transessuale in un procedimento ordinario ha l’onere della prova e così è come se la persona che affronta la transizione sia posta nella condizione di dover convincere qualcuno della serietà e della legittimità delle proprie scelte. E questo è pesante per la dignità delle persone; per la dignità di donna di Graziella lo è stato. E poi, perché un diritto personalissimo come questo deve richiedere una controparte, che siano coniugi, figli o un Pubblico Ministero? E se qualcuno non fosse d’accordo cosa si fa?
Una decisione di questo tipo può coinvolgere, però, anche l’identità sociale dei familiari, soprattutto dei figli. Questo come si risolve?
I familiari vanno ascoltati, seguiti e supportati ma non è certo un processo il luogo per farlo.
Avvocata Brumana, voi siete riusciti a far valere per Graziella il diritto al gratuito patrocinio, altrimenti questo tipo di procedura ha dei costi?
Sì. Questo procedimento ha, purtroppo, dei costi elevati, tutti a carico della persona che ricorre. Anche in caso di esito positivo, chi attiva l’istanza deve sostenere tutte le spese: dai periti, all’avvocato, alle spese processuali e questo può essere molto discriminatorio: è un altro effetto negativo del processo ordinario.
Avvocata Brumana, stando così le cose, è difficile pensare che le modifiche apportate alla legge nel 2011 non abbiano avuto proprio l’intento di ostacolare le istanze di riattribuzione anagrafica…
Già, per questo sarebbe urgente cambiare la legge, uscire dalla logica del processo e rafforzare le reti sociali di accompagnamento alla transizione.