Il COA pubblica i dati aggiornati sull’HIV/ADS in Italia. La LILA: “Il fenomeno delle diagnosi tardive resta esplosivo; occorre fare di più per la prevenzione e per l’accesso al test”.

Dati ISS 2023I dati del COA-ISS riferiti al 2023 e appena pubblicaticonfermano il mutamento in atto del quadro epidemiologico relativo all’HIV/AIDS nel nostro paese. Il principale elemento d’attenzione è rappresentato, ancora una volta, dal fenomeno delle diagnosi tardive, in aumento ormai da un decennio e, da alcuni anni, stabilmente intorno al 60% delle diagnosi annuali.

Altro aspetto su cui accendere i riflettori sono le fasce di popolazione degli anziani e dei grandi adulti, in prevalenza eterosessuali, sia maschi che femmine che, ci dicono i dati, sembrano più esposti/e ad errate percezioni del rischio e dunque anche al rischio di infezione e di gravi ritardi nelle diagnosi. Sembra consolidarsi, infine anche la tendenza al rialzo delle nuove diagnosi sia di HIV, sia di AIDS; per quanto questo fenomeno non segnali dinamiche allarmanti, ne vanno comprese, comunque le cause così da  intervenire prima che si verifichino vere e proprie inversioni di tendenza negative nella discesa delle infezioni. Le popolazioni straniere presenti in Italia rappresentano un altro gruppo cui riservare attenzioni e interventi mirati, viste le condizioni di esclusione e marginalità sociale cui sono spesso costrette. Commentiamo con Giusi Giupponi, Presidente nazionale LILA, alcuni degli aspetti più rilevanti emersi dai dati del COA relativi al 2023.

In aumento le nuove diagnosi di HIV

Nel 2023, ci segnala il COA, le nuove diagnosi di HIV sono state 2.349, anche se i ritardi di notifica dovrebbero portare il dato definitivo intorno a quota 2500. Lo scorso anno erano state 1888. La maggior parte delle nuove infezioni, l’86,3%, è attribuibile a rapporti sessuali non protetti, soprattutto tra persone eterosessuali: il 26,6% maschi eterosessuali e il 21% donne; gli MSM (uomini che fanno sesso con uomini) rappresentano, nel 2023, il 38,6% di tutte le nuove diagnosi. Le persone che consumano droghe per via iniettiva (IDU) costituiscono il 3,4% del totale. Va segnalato nel 2023 un aumento delle donne con nuova diagnosi di HIV: stabile da anni intorno al 21% del totale la percentuale è salita fino al 24% nell’anno in esame (dato riferito a tutte le modalità di trasmissione).

Dopo una costante discesa iniziata dal 2012, le segnalazioni, dal 2021, sono dunque tornate a crescere. Se gli incrementi del 2021 e 2022 potevano essere attribuibili a un recupero dei test non eseguiti negli anni del COVID:L’incremento dell’ultimo anno –spiega il COA- sembra confermare un’inversione di tendenza rispetto al trend storico in diminuzione”. Va detto che il numero di nuove segnalazioni resta al disotto dei livelli del 2019 (meno 6%) mentre l’incidenza, pari a 4 casi su 100mila residenti, è inferiore alla media europea (6,2 casi per 100mila).  “L’aumento di diagnosi che registriamo da tre anni a questa parte non va enfatizzato ma nemmeno sottovalutato –commenta Giusi Giupponi Presidente Nazionale LILA- parliamo pur sempre di 6-7 nuove infezioni ogni giorno, casi che potrebbero essere evitati e che segnalano il permanere di un grave ritardo delle politiche di prevenzione in questo paese –prosegue Giupponi- Una scarsa prevenzione alimenta percezioni del rischio sbagliate, convinzioni che mettono a rischio la salute delle persone e della collettività. Il terzo settore fa il possibile ma le istituzioni, in larga parte, continuano a non prendere atto delle necessità”.

A determinare il calo delle nuove diagnosi è stata, infatti, finora, secondo la LILA, non tanto una modifica generale dei comportamenti dovuta ad una corretta prevenzione, quanto l’effetto preventivo dovuto alle terapie antiretrovirali che rendono il virus non trasmissibile da parte di chi assume la ART (U=U). “E’ possibile –aggiunge Giupponi- che la spinta preventiva dovuta alle terapie stia raggiungendo il massimo delle sue potenzialità, mentre non accade altrettanto sul fronte della prevenzione primaria”. Ricordiamo come, sul fronte della prevenzione, sia disponibile un'altra opportunità efficacissima: la PrEP, Profilassi Pre-Esposizione, da quasi due anni gratuita anche in Italia e la cui efficacia, se ben assunta, sfiora una copertura del 100% contro i rischi di infezione. “Si tratta di uno strumento di prevenzione formidabile –spiega Giupponi- sul quale però non c’è  un’informazione adeguata e che non è accessibile in modo uniforme su tutto il territorio nazionale per questo, con altre associazioni, chiediamo che sia implementata con maggiore decisione da parte del Servizio Sanitario”.

Le diagnosi tardive

Le diagnosi tardive sono il vero tallone d’Achille delle politiche per il contrasto all’HIV in Italia. Anche quest’anno, ben il 60% di chi ha scoperto di avere l’HIV, presentava meno di 350 linfociti CD4 per u/l e, dunque, era già in AIDS o alle soglie di questa grave condizione patologica. In questo caso l’Italia fa molto peggio della media degli altri paesi europei occidentali che, nel 2023, ha registrato un 46% circa di diagnosi tardive. “Scoprire di avere l’HIV quando il sistema immunitario è già molto compromesso e stanno insorgendo patologie, non è accettabile, viste le terapie antiretrovirali disponibili –spiega ancora Giupponi- queste terapie sono molto più efficaci nel tutelare la salute delle persone se iniziate precocemente. Inoltre, una persona che per anni vive con l’HIV senza saperlo può, inconsapevolmente, trasmettere il virus ad altr* partner”. La maggiore frequenza di diagnosi tardive si registra tra gli uomini eterosessuali: in questo gruppo, nel 2023, ben il 67% di chi ha ricevuto una nuova diagnosi era late presenter e quasi il 50% era già in AIDS conclamata; alta percentuale anche tra le donne con nuova diagnosi con un 63% di late presenter. Determinante anche la fascia d’età: ha ricevuto una diagnosi tardiva ben il 75% di quanti avevano dai 60 anni in su. Le proporzioni più basse di diagnosi tardive si registrano invece tra uomini che fanno sesso con altri uomini (MSM) e persone che fanno uso di droghe per via endovenosa (IDU). Nel complesso, oltre un quarto delle persone ha ricevuto contestualmente sia una diagnosi di AIDS, sia di HIV, con proporzioni più alte tra maschi eterosessuali (32,5%) e tra le persone dai 60 anni d’età in su.

Motivi di esecuzione del test e necessità di incrementare la diagnosi precoce

In questo quadro non è un caso che, più di un terzo (il 35%) di chi ha effettuato il test lo abbia fatto perché già presentava sintomi correlati ad una infezione avanzata; questo è stato, peraltro, anche nel 2023, il primo motivo di esecuzione dei test. Anche in questo caso sono soprattutto i maschi eterosessuali a fare il test solo quando si manifestano sintomi correlati (il 40,5%); meno del 20% sono le persone che hanno eseguito il test perché consapevoli di aver avuto rapporti sessuali non protetti e questo accade con più frequenza tra gli MSM. Secondo la LILA, questi dati confermano come alcuni gruppi di popolazione, a causa di un’informazione scarsa o scorretta, non si percepiscano a rischio: “Principalmente si tratta di uomini e donne eterosessuali, soprattutto in età matura, che, tuttora, ritengono l’HIV un problema solo di presunte categorie a rischio - gay, prostitute,consumatori di droghe categorie nelle quali non si riconoscono –spiega Giusi Giupponi- il fatto che tutti i rapporti sessuali vadano protetti non è compreso dalla generalità delle persone e questo è frutto della storica assenza in Italia di politiche di prevenzione serie, mirate e scientificamente corrette”.

Promuovere il test e rimuovere il più possibile le barriere che ostacolano l’accesso ai servizi (richieste di documenti, orari scomodi, paura dello stigma o atteggiamenti stigmatizzanti da parte dei sanitari, mancato rispetto della privacy e dell’anonimato) è, dunque, una priorità assoluta. Fondamentali per la promozione del test sono i servizi offerti da associazioni e communities, tanto che UNAIDS prescrive che siano loro affidati almeno il 30% dei servizi di testing. L’approccio non burocratico, la presenza di operatori pari, la garanzia di anonimato favoriscono, infatti, il contatto con quei gruppi di popolazione che temono il contatto con i servizi “ufficiali”. Rileviamo, a tal proposito, che, tra chi ha ricevuto una nuova diagnosi, il 12,2% abbia eseguito il test cogliendo l’occasione offerta da campagne informative o di screening, sul modello di quelle offerte da LILA e altre associazioni (terzo motivo di esecuzione del test). Si tratta di un dato in crescita; nel 2022 le nuove diagnosi emerse da queste iniziative erano state il 9% circa: “E’ un elemento – commenta Giupponi- che conferma la necessità di differenziare, semplificare e rendere più “friendly” l’accesso al test anche incentivando gli ambienti non sanitari come il nostro, tutti fattori che possono favorire le diagnosi precoci”. 

In aumento le nuove diagnosi di AIDS

Il fenomeno dei late presenter sta trascinando al rialzo, inevitabilmente, il numero di nuove diagnosi di AIDS, riaccendendo i riflettori su una condizione che sembrava essere destinata a divenire sempre più residuale. In rialzo dal 2020, le diagnosi di AIDS hanno conosciuto nel 2023 un balzo in avanti raggiungendo quota 532, il 20% in più rispetto all’anno precedente; l’incidenza passa a 0,9 casi ogni 100.000 residenti dallo 0,7 del 2022, quando le nuove diagnosi di AIDS furono circa 400. Altissima, e in rialzo da alcuni anni, è la proporzione di persone già in AIDS che ha scoperto solo da poco di aver contratto l’HIV: ben l’84% lo ha scoperto entro i sei mesi precedenti la diagnosi di AIDS. La potenza delle ART riesce a contenere per ora il numero dei decessi. Le persone in Italia che vivono con AIDS, secondo gli ultimi dati disponibili, sono circa 25mila.

Nuove diagnosi per classi d’età. Anziani e grandi adulti osservati speciali

Un esame per classi d’età mostra come tra il 2012 e il 2023 l’età mediana della diagnosi sia progressivamente aumentata passando da 37 a 41 anni (negli uomini età mediana più alta rispetto alle donne). La proporzione di nuove diagnosi per classi d’età vede una diminuzione lieve ma costante nella fascia tra i 30 e i 39 anni: nel 2012 era del 33% mentre nel 2023 risulta del 28%. Questo valore è invece in aumento tra le persone con 50 anni e più. In particolare, la fascia d’età tra i 50 e i 59 anni rappresentava il 12% delle nuove diagnosi nel 2012 mentre ora ne costituisce il 20%; quella degli ultra sessantenni passa invece dal 5% del 2012 al 9% del 2023. Quelle degli anziani e grandi adulti sono dunque le uniche fasce d’età in cui si registra una quota percentualmente in crescita di nuove diagnosi, in tutte le altre diminuiscono o restano stabili.

 Anche l’incidenza per fasce d’età mostra un invecchiamento della popolazione con HIV: prima del 2020 l’incidenza più alta si riscontrava tra i 25 ei 29 anni mentre nell’ultimo triennio si è registrata tra i 30 e i 39 anni (9,9 casi ogni 100.000 residenti). Nei maschi le incidenze sono, in media,  tre o quattro volte superiori rispetto a quelle tra le donne.

Coerentemente con quanto analizzato in precedenza, aumenta anche l’età mediana della diagnosi di AIDS passata dai 40 anni del 2003 ai 47 del 2023. La quota di casi di AIDS per fasce d’età rivela un forte aumento tra le persone dai 50 anni in su che passano dal 16,5% nel 2003 al 40% del 2023. Questo fenomeno è particolarmente accentuato tra le donne; se nel 2003 le over 50% rappresentavano il 9,6% delle nuove diagnosi di AIDS, nel 2023 sfiorano ben il 36%.

Questi dati mostrano come le attività di prevenzione e diagnosi precoce debbano continuare a riguardare tutte le fasce d’etàrileva Giupponi- con un’attenzione particolare però per le fasce adulte o addirittura più anziane, evidentemente più esposte a percezioni distorte delle modalità e dei rischi di trasmissione dell’HIV”.

Molto positiva è invece la dinamica dell’AIDS pediatrico, negli ultimi vent’anni in continua discesa grazie alle strategie di screening e accesso alle terapie adottate verso donne in gravidanza e bambini con HIV. Nel 2023 i casi di AIDS registrati tra i bambini sono stati tre, di origine straniera

Migliora anche la tempestività della presa in carico (linkage to care) di chi ha avuto una diagnosi di HIV: il tempo mediano nel 2023 è stato di quattro giorni, la metà rispetto al 2012; il 98,6% delle persone con nuova diagnosi è risultata presa in carico entro tre mesi dalla diagnosi

Popolazioni di origine straniera presenti in Italia

Altro gruppo di popolazione cui riservare una maggiore attenzione è quello delle popolazioni straniere presenti in Italia. La loro percentuale tra chi riceve per la prima volta la diagnosi di HIV è rimasta stabile intorno al 30% fino al 2022 per subire però un deciso aumento al 36,9% nel 2023. Tutte le nuove diagnosi relative alle persone straniere sono state effettuate in Italia. “Va ricordato –spiega la Presidente della LILA- che gran parte dei e delle migranti e delle persone rifugiate si infetta durante i viaggi migratori ma soprattutto dopo l’arrivo in Italia. Le condizioni di esclusione sociale in cui sono spesso costrette a vivere e le violenze che sono talvolta costrette a subire si traducono in esclusione dai servizi di prevenzione e trattamento dell’HIV. Occorre investire maggiormente sul diritto alla salute di questi gruppi di popolazione –aggiunge Giupponi- perché la tutela della salute non può che essere inclusiva e collettiva”.

Distribuzione geografica e nodi nell’offerta di servizi

La regione che ha segnalato più casi è stata la Lombardia (377), seguita da Lazio (348), Emilia Romagna (253) e Campania (228). Nelle province di Roma e Milano (quelle con incidenza più alta), dopo una diminuzione durata fino al 2020, da un triennio si osserva invece un marcato aumento.  

 Un altro dato che ci preme mettere in luce quello della mobilità dei pazienti rispetto all’offerta assistenziale delle varie regioni. Considerando solo quelle con più residenti (Lombardia, Lazio, Campania, Veneto, Sicilia, Emilia Romagna) si osserva che i cittadini della Campania e della Sicilia sono quelli che maggiormente si spostano in altre regioni per le cure mentre le altre quattro sono quelle che più hanno accolto cittadini da altre regioni): “Questo dato –commenta Giupponi- sembra confermare quello che da tempo segnaliamo, ossia una disuguaglianza nell’accesso a cure e servizi molto spiccata tra nord e sud. Anche nel meridione esistono centri d’eccellenza ma la copertura territoriale è sicuramente insufficiente”. A destare preoccupazione è anche la decisione che stanno assumendo molte amministrazioni regionali di non accogliere più, per le terapie, pazienti residenti in altre regioni: “Il rischio –dice Giupponi- è che molte persone decidano così di rinunciare alle cure: abbandonare i servizi da cui si è seguiti da anni può essere davvero scioccante  e la paura di doversi trasferire in territori in cui si può essere riconosciuti può fare il resto. Comprendiamo come questi provvedimenti siano frutto delle minori risorse a disposizione per la Sanità pubblica ma, proprio per questo, non ci rassegneremo al fatto che siano i diritti delle persone a farne le spese”.   

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