In occasione dei recenti lavori di ICAR, il Professor Massimo Galli, presidente della SIMIT (Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali), e direttore malattie infettive dell'ospedale Luigi Sacco di MIlano, è tornato a sollecitare la necessità di implementare quanto prima il PNAIDS, il Piano Nazionale Aids, elaborato dal miinistero della Salute nel corso del 2016 e approvato lo scorso ottobre 2017 anche dalla Conferenza Sato-Regioni. Ne abbiamo parlato in questa intervista in cui ribadisce anche la validità della TasP e la necessità di avviare, anche nel nostro paese, una sperimentazione della PrEP.
Professor Galli, ci troviamo in un momento decisivo per la lotta all’HIV Aids in Italia e per i diritti delle persone con HIV. Lo scorso ottobre la conferenza stato-regioni ha dato il via libera ad un PNAIDS innovativo, frutto di un grande sforzo comune da parte di istituzioni, comunità scientifica, associazioni ma ora com’è la situazione? Tutto fermo?
Magari non ovunque.. ma, certamente, il rischio di trovare delle inerzie è elevato. E’ invece necessario reperire le risorse umane e materiali per farlo camminare. La legge 135/ 90 ci ha consentito di intervenire efficacemente su una situazione, appunto, del 1990 . Nel frattempo molto è cambiato sia nell’assetto epidemiologico generale, sia nelle problematiche associate a questa patologia che, contrariamente a quello che in molti pensano, non sono state ancora risolte. E’ dunque arrivato il momento di affrontare questa nuova realtà. In alcuni regioni si è già proceduto ad una programmazione in questo senso. Mi risulta, ad esempio, che l’abbia fatto la regione Lazio. Non così in gran parte delle altre regioni italiane . Dunque, soprattutto in questo momento di transizione, l’attenzione delle community e della comunità scientifica può diventare un elemento chiave per far camminare questo progetto.
A proposito di momento di transizione siamo anche in presenza di un nuovo governo. La preoccupa questo passaggio?
La promozione di interventi adeguati sull’HIV/AIDS mi preoccupa da 35 anni a questa parte, da sempre. Io faccio parte di una generazione la cui attività professionale è stata molto connotata dall’ HIV/ AIDS, sono cresciuto professionalmente nel luogo che, forse, in assoluto, ha preso in carico il numero più alto di malati in AIDS e dico che non siamo mai stati in una situazione tranquilla da questo punto di vista. Come sempre, quando si tratta di malattie che colpiscono fortemente l’opinione pubblica, e questa da alcuni punti di vista è stata una malattia che ha fatto scandalo, la partecipazione emotiva subisce delle fluttuazioni: nei momenti di picco attenzione massima, nei momenti di valle, che possono essere anche lunghi, attenzione minima. Abbiamo un nuovo governo, come era auspicabile. Sono un professore universitario, primario di un grande reparto, presiedo un’importante società scientifica, ho coordinato il comitato tecnico-scientifico del ministero della Salute per la realizzazione del PNAIDS e dunque ho il dovere istituzionale di far presente sia in sede ministeriale che alle regioni, l’importanza di applicare questo piano.
In questa sessione di ICAR è tornata a farsi sentire la protesta delle associazioni e delle community su alcuni temi che si ricollegano all’applicazione del PNAIDS. Partiamo dalla PrEP: per ora in Italia resta un miraggio, nonostante le evidenze scientifiche e le esperienze internazionali ne confermino la validità. Cosa prevede in merito Professore?
Per quanto riguarda la PrEP non ha aiutato questo lungo periodo elettorale che ha finito per far slittare alcuni interventi. Stiamo comunque cercando di far partire la PrEP dal basso, con una prima sperimentazione di questo intervento di limitazione del danno in tre/ quattro aree metropolitane. L’idea è di svilupparlo in un contesti “friendly” che consentano alle persone che decidono di ricorrere a questo strumento di evitare il “fai da te”. E’molto più facile che questo bisogno possa essere intercettato in contesti extra-sanitari. È infatti importante ricordare che la PrEP riguarda persone che non hanno contratto l’infezione da HIV, persone magari poco disponibili a venire in un ospedale per questa prescrizione, persone che però vorremmo evitare che si infettassero. Credo che si debba arrivare ad una formalizzazione di questo intervento e che si debba fare più presto possibile. La costruzione, da parte di community e società scientifica, di realtà che possano garantire questo tipo di approccio sono fondamentali. Altrimenti rischiamo di aspettare Godot…. mentre in altri paesi europei questi programmi sono già in corso, sostenuti, in molti casi, dai sistemi sanitari nazionali.
L’altro tema della protesta delle associazioni ha riguardato il rischio di tagli ai servizi che si occupano della cura e dell’assistenza alle persone con HIV. Cosa ne pensa?
La presa di posizione delle associazioni sottolinea come non si possa contrastare la diffusione dell’HIV a forza di tagli, di limitazioni di mancata attenzione alle necessità emergenti di una popolazione con HIV che ora riesce anche ad invecchiare e, dunque, ha bisogno di tutta una serie di interventi per la migliore gestione delle comorbosità. Un alto livello di assistenza garantisce alle PLHIV l’aderenza alle terapie in una situazione di benessere , premessa indispensabile per mantenere queste persone in una condizione di non contagiosità.
A tal proposito è’ più che mai importante, in questa fase delicata, ripartire dalle evidenze scientifiche. Tra le più importanti di questi anni c’è la TasP. Le associazioni chiedono che ne venga riconosciuta la piena validità anche dalle competenti istituzioni italiane. SIMIT è disponibile a sostenere questa richiesta, anche con una dichiarazione pubblica?
La Terapy as Prevention è una strategia fondamentale in un contesto in cui ancora non abbiamo, e forse non avremo mai, un vaccino preventivo. Avere in Italia 100mila persone in trattamento ART , il 95% dei quali con carica virale soppressa, vuol dire aver ridotto in maniera sostanziale il virus circolante. Abbiamo necessità ancora di affrontare il problema dell’emersione del sommerso, parliamo probabilmente di 15-20mila persone che non sanno di avere l’HIV in Italia ma abbiamo certamente anche l’orgoglio di aver raggiunto questo risultato.
I dati riconosciuti da ECDS di Atlanta che dicono che le persone in trattamento stabile sono persone non più contagiose. Ovviamente noi continuiamo a raccomandare una serie di precauzioni in relazione a certe circostanze che però gli interessati conoscono molto bene e che possono gestire. Le evidenze e la letteratura scientifica internazionale in merito sono ormai molto chiare: come comunità scientifica dobbiamo riprendere quanto dice ECDC e andare a dire a chi di dovere: “le cose stanno così”. Questo serve anche a cominciare a demolire “il contorno viola” e a combattere lo stigma contro le persone che vivono con HIV/AIDS.
il video dell'intervista è disponibile sul canale YouTube di LILA, a questo link.