In occasione dell’otto marzo, Giornata internazionale della donna, la Presidente nazionale della LILA, Giusi Giupponi, fa il punto su donne e HIV in Italia. Prevenzione, diritti, invecchiamento, maternità, servizi: tanti i progressi ma tante, ancora, le criticità da superare.
L’intervista è di Laura Supino.
Presidente Giusi Giupponi, partiamo dai dati: cosa ci dicono rispetto all’andamento dell’HIV nella popolazione femminile italiana?
Gli ultimi dati resi disponibile lo scorso novembre dal COA-ISS, relativi al 2023, segnalano come la percentuale di nuove diagnosi tra le donne abbia subito, nell’ultimo anno di rilevazione, un deciso aumento rappresentando il 24% del totale dopo anni in cui questa quota era stabile intorno al 21%. Tra le donne, le nuove diagnosi continuano a essere più basse rispetto alla quota di uomini eterosessuali (26,6%) e agli uomini che fanno sesso con altri uomini (38,6%) ma l’aumento registrato potrebbe non essere un buon segnale per quanto riguarda la popolazione femminile.
Secondo te a cosa è dovuto questo aumento?
Non è semplice capirlo, i motivi possono essere molteplici. E’ possibile che più donne abbiano fatto ricorso al test ma, secondo noi, la causa principale sta nel rafforzarsi di errate percezioni del rischio, ancora basate sulla convinzione che l’HIV sia un problema di “categorie altre": gli uomini eterosessuali che hanno rapporti a pagamento, i maschi che fanno sesso con altri uomini, l/le sex workers o le persone transgender; convinzioni sbagliate che, peraltro, non tengono conto della fluidità che caratterizza le scelte sessuali delle persone. Dunque, le donne, in generale, sono poco preparate a proteggersi durante i rapporti sessuali e sono più influenzate dai legami affettivi, come se questi potessero escludere il rischio infezione. Dopo più di quarant’anni, il concetto di categoria a rischio continua a causare danni enormi alla prevenzione e all’adozione di comportamenti sessuali più sicuri, in particolare tra le donne.
Stai dicendo che le donne hanno rispetto all’HIV una consapevolezza ancora troppo bassa?
E' probabile o almeno è quello che possiamo percepire anche elaborando i dati basati sulle migliaia di contatti che abbiamo ogni anno con le persone, attraverso i nostri servizi e le nostre iniziative. In generale, le donne sembrano ancora considerare la prevenzione dell’HIV e di altre IST “una questione maschile”, evidenziano grosse difficoltà nel proporre o contrattare l’uso del profilattico, non conoscono il femidom (profilattico femminile) non conoscono la PrEP (Profilassi pre-Esposizione), confondono ancora contraccezione e prevenzione delle IST.
Puoi darci qualche dettaglio in più rispetto a quanto emerge dal vostro osservatorio?
Si, alcuni sono piuttosto significativi. Tra quante nel 2024 si sono rivolte ai servizi di testing della LILA, ben il 58,3% non aveva usato il profilattico nell’ultimo rapporto sessuale e il 52% non aveva mai fatto un test per l’HIV in precedenza. Questa tendenza a “delegare” al partner la gestione della prevenzione è emersa, in maniera allarmante, nelle risposte delle giovanissime intervistate nell’ambito del progetto EDUCAIDS di LILA Cagliari per le scuole superiori. In molte hanno spiegato il mancato uso del profilattico come una scelta del partner o perché ritenevano di essere protette dalla pillola anticoncezionale.
A cosa sono dovute secondo te queste "reticenze" o queste convinzioni erronee? Quali rischi comportano?
Secondo noi segnalano un'urgenza irrisolta: le donne, sulle quali ancora incombono pesanti tabù rispetto alla sessualità, hanno bisogno di servizi più orientati alle loro necessità e meno giudicanti ma anche di campagne d’informazione più mirate. Per quanto riguarda i rischi, la bassa propensione a ricorrere al test per l’HIV causa tra le donne un alto numero di diagnosi tardive. I dati ufficiali nazionali indicano come ben il 63% di quante hanno appreso di aver l’HIV nel 2023 fosse già in AIDS o alle soglie di questa grave condizione; si tratta di un dato inaccettabile, viste le opportunità di salute rappresentate dalle terapie antiretrovirali, che sono tanto più efficaci quanto maggiore è la tempestività della diagnosi.
Veniamo, in particolare, alle donne con HIV, quali bisogni emergenti ravvisate?
Intanto, tutte le criticità legate all’invecchiamento che, in generale, differiscono tra uomini e donne. Grazie alle terapie antiretrovirali possiamo vivere a lungo ma stiamo constatando, ormai da tempo, come, per chi vive con l’HIV, l’invecchiamento comporti percorsi di salute complessi ed esponga a fragilità e vulnerabilità maggiori. Per le donne con HIV, certamente, pre-menopausa, menopausa e post menopausa sono fasi della vita che si rivelano particolarmente critiche e che andrebbero maggiormente sostenute con la ricerca e il supporto medico-sociale. Andrebbero, ad esempio, studiate maggiormente le interazioni dei farmaci antiretrovirali con i cambiamenti ormonali o con eventuali terapie di supporto ormonale, che spesso, restano precluse alle donne con HIV. Per le più giovani, invece, ci sono tutti i temi legati alla contraccezione e alla maternità.
A che punto siamo su questi aspetti?
Ci sono grandi lacune per quanto riguarda l’attenzione alla salute sessuale e riproduttiva delle donne con HIV. Come dicevo in precedenza, mancano servizi e competenze orientati in modo specifico. Per quanto riguarda, in particolare, la maternità, dobbiamo riconoscere che i passi in avanti ottenuti con le terapie e con U=U sono enormi. Nei paesi a welfare avanzato, come l’Italia, la nascita di bambini con HIV è quasi pari a zero e la scelta di diventare madri è ora possibile in grande serenità. Tuttavia, si fatica ad applicare i risvolti più avanzati delle linee guida sulla gestione della gravidanza in HIV: spesso non vengono costituite le previste equipe multidisciplinari e alle donne vengono ancora somministrate dosi di AZT prima del parto, pratica inutile se la donna è con carica virale non rilevabile, ovvero in U=U. La LILA è intervenuta, anche di recente, su situazioni di gestione non corretta della gravidanza in HIV. Andrebbe, inoltre, sostenuta maggiormente la scelta delle donne in U=U di allattare al seno fornendo loro tutte le necessarie consulenze (psicologica, infettivologica ecc). In mancanza di studi ampi e solidi su U=U rispetto al latte materno, è comprensibile che nei medici, ma anche tra le mamme, possa prevalere un atteggiamento di cautela; tuttavia, esistono pratiche avanzate ed esperienze consolidate che permettono una gestione sicura dell’allattamento al seno e queste esperienze andrebbero prese in considerazione. In alternativa, va assicurato un corretto supporto per l’accesso al latte artificiale, a carico dal SSN, nei primi sei mesi di vita del neonato/a.
Esistono tra le donne gruppi di popolazione più vulnerabili rispetto all’HIV?
In generale, le donne presentano in Italia una vulnerabilità sociale e sanitaria maggiore, rispetto agli uomini e sono più esposte a povertà, sopraffazione, violenze e pregiudizi. Credo che, in particolare, sia urgente prestare maggiore attenzione alle donne immigrate, che hanno più difficoltà ad accedere ai servizi per la salute sessuale e, spesso, non possono farlo in autonomia. Altri gruppi sicuramente vulnerabili sono le sex workers, soprattutto di nazionalità non italiana e le donne transgender, sulle quale pesa uno stigma sociale ancora fortissimo e che presentano specifici bisogni di salute, da sempre trascurati.
Un'ultima domanda riguarda l’attualità più stringente: quanto siete preoccupati dei tagli che l’amministrazione Trump sta operando sugli aiuti internazionali, anche per l’HIV? Quale potrebbe essere l’impatto sulle donne?
Siamo molto, molto preoccupate. I tagli ai piani di sostegno verso i paesi più poveri sostenuti dagli USA rischiano di trasformarsi in una catastrofe umanitaria e sanitaria che non potrà non avere effetti deleteri in tutto il pianeta. Le donne ne erano tra le principali beneficiarie, soprattutto in Africa, dove rappresentano ancora le fasce di popolazione più colpite; questo si tradurrà, inevitabilmente, anche in un maggior numero di bambini con HIV. Secondo il Guardian, solo in Sud Africa, il paese al mondo con in cui vivono più persone con HIV, i tagli ai fondi USAID, che rappresentano il 17% delle risorse per la risposta all’HIV, potrebbero provocare 500mila morti in più nei prossimi dieci anni, soprattutto tra donne e bambini.
A rischio sono tutti gli obiettivi ONU 2030 che puntano a debellare l’AIDS come minaccia per la salute pubblica mondiale. La salute di tutti e tutte è un valore indivisibile che non conosce confini e barriere. Un colpo fortissimo rischia di subirlo anche la ricerca scientifica, di cui gli Stati Uniti sono da decenni un faro mondiale indiscusso, in particolare la ricerca di genere e quella su nuovi e più evoluti farmaci per il controllo dell’HIV e per la PrEP. La speranza è che ci sia un ripensamento ma anche che l’Europa sappia sopperire il più possibile a queste scelte scellerate.
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