Da alcuni anni ormai, sono stati pubblicati studi che collegano l’omofobia e la mancanza di tutele legali nei confronti delle persone LGBT con un più alto rischio di contagio da HIV.
John Pachankis della Yale School of Public Health, ad esempio, utilizzando i dati raccolti tramite un progetto congiunto di atenei, governi, Ong e media online di trentacinque paesi europei, l’European MSM Internet Survey (EMIS), ci dice che gli uomini gay e bisessuali che vivono in contesti ad alto tasso di omofobia e dove non ci sono tutele o vi sono addirittura politiche ostili, tendono ad usare meno i servizi per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, i test per l’HIV ed evitano di parlare della propria sessualità con gli operatori e le operatrici della sanità. Sappiamo inoltre che alti livelli di omofobia producono un minore accesso alle informazioni sull’HIV, sulla sua prevenzione e inducono ad un minor uso dei preservativi.Questi dati, come dicevamo, sono conosciuti sul piano della ricerca, ma vengono anche testimoniati quotidianamente dalle persone che vivendo in contesti ad alto tasso di omofobia e si vedono negate le risorse, incluse quelle psicologiche, necessarie per farsi carico della propria salute. In tali situazioni si potrebbe quasi dire che il rischio di infezione sia determinato più dalla conseguenza di leggi, politiche e atteggiamenti istituzionali negativi verso l’omosessualità che dai comportamenti delle singole persone.
La lotta contro l’omo-bi-transfobia è quindi un obiettivo prioritario anche nella gestione dell’epidemia da HIV perché se il virus continua a prosperare – specie in alcune realtà – si deve anche e soprattutto al fatto che in molti paesi del mondo le leggi e le pratiche punitive contro le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender continuano a bloccare una risposta efficace all’HIV. Ma la questione appare più generale e coinvolge tutti gli ambiti sociali e scientifici perché, a ben guardare, l’epidemia da HIV è stata raccontata fin da subito come il risultato di uno sguardo omofobico. Nel maggio del 1981, infatti, il bollettino epidemiologico dei Centri per il Controllo delle Malattie (CDC) di Atlanta, descriveva cinque casi di una polmonite atipica verificatisi tutti in giovani maschi di Los Angeles. E a rendere ancor più particolare l'intera vicenda contribuiva il fatto che tutti i giovani maschi riferivano di avere avuto rapporti sessuali con altri maschi. Fu subito istituita una sorveglianza specifica su questo tipo di polmonite e su altre patologie indicative di immunodeficienza così che al 15 settembre dello stesso anno si registrarono in tutti gli Stati Uniti 593 casi di immunodeficienza che, per la maggior parte, riguardava omosessuali maschi e si decise perciò, in quello stesso periodo, di definire questo fenomeno con il nome di Gay-Related Immunodeficiency Disease (GRID), ovvero "malattia da immunodeficienza correlata all'omosessualità".
La "peste omosessuale", come fu subito ribattezzata dai media, stimolò nella società la recrudescenza della convinzione collettiva che l'omosessualità fosse un problema medico-sociale: l'associazione tra omosessualità e malattia fu resuscitata in maniera tanto intensa da rimanere, ancora oggi, diffusamente presente.
In Italia questo approccio a-scientifico fu riassunto dall’allora Ministro alla Sanità Donat Cattin nell’espressione. “l’aids se lo prende chi se lo va a cercare”.
Da allora sono passati diversi anni ma quell’approccio omofobico e stigmatizzante è rimasto un segno non ancora del tutto cancellato. Perché l’omo-bi-transfobia non si manifesta in modo eclatante ma spesso è così sottile da non risultare visibile nelle sue caratteristiche ma soltanto nelle sue conseguenze.