Una piccola grande storia che ha scritto una pagina importante in questo paese per il diritto alla salute di tutti e tutte, per la lotta alle discriminazioni, per la dignità delle persone: è quella che la LILA ha celebrato a Siena, nella serata del 12 giugno, in occasione del suo trentennale. L’ha fatto con un convegno: “Trent’anni di Lila, trent’anni insieme per i diritti, la salute, la dignità sociale” che ha riunito insieme attivisti vecchi e nuovi della LILA e di altre ONG, esperti, medici, cittadini per ricordare quanto è stato fatto e quanto resta da fare per sconfiggere l’HIV/AIDS entro il 2030, così come indicato dagli obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile.
In apertura la chair del convegno, Alessandra Cerioli, già presidente della LILA, ha chiesto un minuto di silenzio in memoria di tutte le persone morte di Aids in questi decenni: persone sconosciute, amici e amiche che ci hanno lasciato, attivisti che hanno contribuito alle tante, difficili, battaglie dell’associazione. La serata di discussione si è svolta a margine del congresso ICAR che si è tenuto a Siena tra il 12 e il 14 giugno. “E’ significativo celebrare il nostro trentennale in questa occasione –ha detto Alessandra Cerioli- ICAR è uno spazio di confronto importante tra società scientifica e società civile secondo il principio dettato sin dagli anni ’80 dagli attivisti statunitensi: Nulla su di noi senza di noi”.
Prima Franco Grillini, storico attivista dell’Arcigay e fondatore nel 1987 della LILA, e poi Massimo Oldrini, attuale presidente della LILA, hanno ripercorso la nascita e la storia dell’associazione. “L’idea partì da un gruppo di persone di Arcigay e poi si allargò alle realtà che lavoravano con noi nelle battaglie per i diritti civili –ha raccontato Grillini- di fronte all’emergenza AIDS eravamo pochi e soli. L’epidemia venne allora subito bollata come la “peste gay” e gli episodi di discriminazione si moltiplicarono. Tutti però chiamavano noi, non solo le persone omosessuali ma mamme con bambini nati positivi all’HIV, persone in carcere, consumatori di droghe per via iniettiva, tanta gente spaventata... Eravamo già nell’85/86 e dallo Stato non era giunto nessun tipo di intervento –ha proseguito Grillini- nemmeno il rafforzamento dei controlli sulle donazioni di sangue, operato invece in gran parte d’Europa già dall’84. La situazione peggiorò con Donat Cattin ministro della Salute e con la sua lettera a 25 milioni di italiani in cui si scagliava contro il preservativo raccomandando fedeltà e astinenza”. Nella sua relazione Massimo Oldrini ha ripercorso i tre decenni della storia dell’HIV e quindi della LILA: da quei primi anni bui del decennio 1987-1997, funestate dai lutti per un’infezione allora senza cura, all’avvento delle terapie antiretrovirali, che hanno trasformato l’HIV in una patologia cronica gestibile, fino alle odierne evidenze sulla TasP (Treatment as Prevention). Filo conduttore di questi decenni, a fronte dell’immobilismo e dei danni causati, talvolta, anche dalle istituzioni, l’impegno costante della LILA in difesa della dignità e dei diritti delle persone con HIV, contro lo stigma e discriminazioni ma anche per la prevenzione a difesa della salute di tutta la collettività. “Per la LILA sono stati 30 anni complessi –ha raccontato Oldrini- ma anche 30 anni di straordinario impegno civile da parte di moltissime persone con background, storie e professioni diverse”. Quanto al futuro: “l’HIV resta un problema di sanità pubblica che solo negli ultimi anni è rientrato nell’agenda politica europea –ha detto Oldrini- e che ora dovrà entrare veramente nell’agenda Italiana. Per arrivare all’obiettivo 90x90x90 previsto dall’ONU non basta un Piano Nazionale, servono innovazione e quindi risorse ma serve anche coraggio”. (Leggi qui l’intervento del presidente della LILA)
Il nuovo PNAIDS, piano nazionale di interventi contro l’HIV/AIDS, ancora all’esame della conferenza Stato-Regioni, è stato anche tra i temi della tavola rotonda “Fast track to end AIDS by 2030, le sfide che ci attendono”, coordinata dal direttore di Lilanews Andrea Adriatico. Alla discussione hanno partecipato il coordinatore di ICAR Andrea Antinori, infettivologo dello Spallanzani di Roma, Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano e vicepresidente SIMIT, Antonella Castagna, ospedale San Raffaele di Milano, Maria Stagnitta, presidente Forum droghe e CNCA, Massimo Farinella, Mario Mieli, Michele Breveglieri, ARCIGAY. Tra loro molti membri del comitato tecnico-sanitario del ministero della Salute che ha contribuito all’elaborazione del Piano.
Tutti i relatori si sono mostrati concordi nel definire il PNAIDS un documento innovativo nel merito e nel metodo, nato da una collaborazione tra istituzioni, comunità scientifica e società civile, senza precedenti in Italia: “questo piano parla di prevenzione integrata, di TasP, di key population, ha trovato un linguaggio corretto e non stigmatizzante” ha detto Antinori. Comuni tuttavia le preoccupazioni per il mancato stanziamento di risorse che possano sostenerne l’attuazione. “Impossibile ricomprendere l’attuazione di un progetto così articolato nei LEA –ha detto Massimo Galli- il PNAIDS rischia di diventare solo un ottimo strumento di advocacy per influenzare la politica, forse ci darà spazio per rivedere la legge 135. Ad ogni modo servono risorse e cercheremo di fare fino in fondo la nostra parte”. Anche per Maria Stagnitta: “E’ impossibile che tutti gli interventi psico-sociali, la lotta allo stigma, la riduzione del danno, possano essere garantiti dai LEA. La ministra Lorenzin deve darci delle risposte”. Concorde Michele Breveglieri: “Il Piano può essere un ottimo strumento –ha detto- ma manca un investimento economico-politico”. Da Massimo Farinella, infine, l’invito a costruire alleanze anche localmente per far pressione sulle amministrazioni regionali. La piena attuazione del Piano si rivela tanto più necessaria se si guarda agli obiettivi ONU 90x90x90. “Il terzo obiettivo, ossia il conseguimento della soppressione virale nel 90% delle persone trattate, lo abbiamo raggiunto -ha detto Antinori- siamo vicini a raggiungere il secondo obiettivo, ossia garantire i trattamenti al 90% delle persone con diagnosi da HIV, mentre il primo obiettivo, ossia rendere consapevoli del proprio stato sierologico il 90% delle persone con HIV, resta molto problematico”. D’accordo Antonella Castagna: “Il primo obiettivo resta il più lontano da raggiungere mentre cresce la disinformazione, soprattutto tra i più giovani. La mancanza di fondi non permetterà di fare quello che il PNAIDS si propone di fare: ossia ampliare, capillarizzare, l’accesso al test moltiplicando le esperienze come il checkpoint di Bologna”. Sul tema dell’accesso al test, Adriatico ha chiesto a Breveglieri e a Farinella se le comunità gay possano spendersi di più o se ci sia il timore di essere di nuovo “bollati” come “categoria a rischio”. “Fino al 2012 ci siamo sentiti ripetere che il problema era ormai più della popolazione eterosessuale ma da allora sta cambiando qualcosa –ha risposto Michele Breveglieri- le persone cominciano a comprendere di non essere fuori dal problema, community e associazioni si stanno già mobilitando con l’esperienza di chi sa come evitare di riproporre la logica delle categorie a rischio". Per Massimo Farinella: “Rispetto al passato la paura di essere bollati come categoria a rischio è un po’ diminuita, anche se certi i toni e certi titoli, usati per lanciare l’allarme epatite A, hanno riaperto vecchie ferite. Bisogna dire che nella comunità gay ci sono dei problemi –ha proseguito Farinella- ma l’uso del linguaggio è importante”.
Tra i temi proposti alla discussione da Andrea Adriatico, anche quello della relazione-medico-paziente, considerata uno degli ingredienti fondamentali per il successo della ART e per il mantenimento in cura ma che rischia di essere messa in crisi dalla mancanza di risorse, di personale medico e dalla riorganizzazione delle strutture per le malattie infettive. “Il problema esiste –ha detto Antinori- in questi anni la cura nei reparti si è quasi esaurita ed è invece esplosa quella ambulatoriale. Per anni ci siamo occupati solo di HIV e AIDS ma ora torniamo a occuparci anche di altre patologie infettive. Lo Spallanzani ha in carico 7mila pazienti e non ci sono stati aumenti di risorse né di organico”. Il problema comincia a farsi sentire anche per Raffaella Castagna che però invita ad adeguare il rapporto medico-paziente anche alle nuove esigenze di cura: “Occorre mantenere il medico di riferimento ma aprirsi anche alla collaborazione con altri specialisti, per esempio ai geriatri, visto l’invecchiamento della popolazione con HIV”. Per Massimo Galli ai pazienti con HIV sono tuttora garantiti alti livelli di cura: “In nessun altro ambito delle malattie croniche è garantito un rapporto così continuativo tra medico e paziente ed un monitoraggio così accurato –ha detto- il 70-80% delle persone con HIV, almeno al nord, ha ormai una vita in linea con quella della popolazione generale”.
Di TasP, Treatment as Prevention, si è occupato Simone Marcotullio, vicepresidente Nadir. Nella sua relazione dal titolo: “Oggi abbiamo gli strumenti per garantire la dignità della persona con HIV”, Marcotullio ha ripercorso le tappe che nel 2009, portarono LILA e Nadir al lancio del “Position Paper” sulla TasP. “Con quel documento rendemmo pubblica un’evidenza che circolava quasi sottovoce –ha detto- la TasP ha ricollegato terapie e prevenzione. Le terapie agiscono sulle persone con HIV curandole e rendendole non infettive ma anche sulle persone che non hanno l’Hiv perché le protegge. Dobbiamo urlare queste novità”. Anche Alessandra Cerioli ha ricordato: “Nella storia delle persone con Hiv ci sono state due buone notizie l’avvento della ART, grazie alla quale non si muore più, e la TasP che ha reso non infettive le persone in terapia e con carica virale soppressa”.