“Take the rights path”: intraprendere la strada dei diritti per sconfiggere l’AIDS entro il 2030. LILA: “Nel nostro paese ancora troppe le discriminazioni”.

 wad2024 logoIl mondo può porre fine all'AIDS, se vengono tutelati i diritti di tutti: ”Take the rights Path”. E’ il messaggio che UNAIDS sceglie di lanciare al mondo per la Giornata mondiale contro l’AIDS 2024 (WAD). Secondo il programma ONU, l’AIDS potrà cessare di essere una minaccia per la salute pubblica entro il decennio solo mettendo al centro il rispetto dei diritti umani e il protagonismo delle communities. Tuttavia, è l’allarme lanciato da UNAIDS, un’ondata di attacchi ai diritti delle persone, soprattutto le più vulnerabili ed emarginate, rischia di compromettere i progressi compiuti.

Tali progressi, sottolinea UNAIDS, sono direttamente collegati a quelli per i diritti umani e al loro grado di tutela, per questo occorre coinvolgere sempre di più le persone con HIV e quelle più esposte al rischio di infezione. Leggi e culture che puniscono, criminalizzano o stigmatizzano chi vive con l’HIV (principalmente donne e ragazze, uomini che fanno sesso con altri uomini, persone transgender, sex workers, persone che usano droghe per via iniettiva, detenut*, migranti e altre popolazioni emarginate), ostacolano l’accesso di queste persone, ai servizi per la prevenzione, ai test, alle terapie rendendosi di fatto, complici del diffondersi dell’HIV. Gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno il dovere di sostenere la Dichiarazione ONU sui diritti umani rimuovendo tutte le leggi che danneggiano i diritti delle persone. “Gli impegni internazionali sottoscritti in materia di diritti umani –ricorda UNAIDS- hanno forza di legge e le comunità hanno il diritto di ritenere i loro governanti responsabili del rispetto di tali mandati”.  Questa Giornata mondiale contro l'AIDS, prosegue UNAIDS,: “è un invito all'azione per proteggere la salute di tutti proteggendo i diritti di tutti. I leader devono intraprendere la  strada dei diritti”.

Discriminazioni in Italia: la LILA fa il punto

Come sta andando, invece, in Italia? Non benissimo, secondo quanto segnala la LILA che ha elaborato numeri e casi più eclatanti segnalati e trattati dalle nostre Helpline e dai nostri uffici legali.  Prendendo solo i dati degli ultimi quattro anni, le discriminazioni subite dalle persone con HIV o reputate a rischio HIV non mostrano flessioni.

Tra il 2021 e il 2024 le persone con HIV che hanno preso contatto con i servizi della LILA sono state circa 2700, un numero non trascurabile se rapportato al numero di persone con HIV presenti in Italia (140mila circa) e al numero limitato di anni presi in esame, in sostanza l’1,9%  del totale. Il tema più trattato e sul quale viene richiesto particolare supporto è quello delle terapie e del vivere con l’HIV. Subito dopo, quello sentito con maggior urgenza è il nodo dei diritti e, spesso, si tratta di diritti negati o che le persone con HIV fanno fatica a vedere rispettati. In questo quadriennio le percentuali di chi ha richiesto informazioni o supporto in materia di diritti sono rimaste stabilmente tra il 35,5% e il 41,2%, quindi più di una persona con HIV su tre. 

Nell’ambito delle richieste sui diritti, le criticità che ci vengono più comunemente segnalate riguardano discriminazioni in base allo stato sierologico, episodi o rischi di violazione della privacy, la divulgazione, non consentita e non legale di informazioni sullo stato sierologico di persone con HIV in ambienti lavorativi, sanitari, relazionali: tali violazioni vengono spesso celate dietro le routine delle procedure amministrative e burocratiche di cui, poi, nessuno si assume la responsabilità. La richiesta di documentazione sul proprio stato di salute in ambito bancario, assicurativo, amministrativo (es: richieste mutui e prestiti, stipula di polizze assicurative, rilascio/rinnovo della patente) è pratica tanto comune quanto scorretta se non illegale che si traduce, spesso, nell’impossibilità di esercitare dei diritti essenziali. Ma la pratiche illecita più diffusa e più grave è, sicuramente, la richiesta di test per l’HIV nei luoghi di lavoro, sia in fase di pre-assunzione, sia in costanza di rapporto lavorativo.

Nel 2021 le persone con HIV che ci hanno chiesto supporto in abito lavorativo sono state una trentina mentre i casi di discriminazione subite in altri ambiti sono stati ventuno; Nel 2022, oltre, ad una cinquantina di persone che hanno chiesto informazioni per la tutela della propria privacy, ci sono stati segnalati almeno una trentina di casi di discriminazioni, la metà dei quali relativi a richieste di test collegati al lavoro.

Quindici le richieste di test sul lavoro segnalate nel 2023 e dodici i casi di discriminazione di cui ci siamo occupati. Analoga all’anno precedente la quota di persone che ci hanno chiamato per preoccupazioni relative alla privacy. Nell’anno in corso, infine, il 2024 le segnalazioni di violazioni che ci sono pervenute sono state oltre sessanta, la metà riguarda l’ambito lavorativo, le altre, prevalentemente, ambienti sanitari.

Dopo le discriminazioni in ambito lavorativo, le più numerose sono, dunque, incredibilmente, proprio le violazioni in contesti sanitari, laddove ci si attenderebbero un adeguato aggiornamento professionale e comportamenti dettati dalla razionalità scientifica. Le discriminazioni più frequenti che ci vengono segnalate in questo settore riguardano la persistente pratica di collocare le persone con HIV agli ultimi posti delle liste per gli interventi chirurgici, così da evitare di “contaminare” le sale operatorie. Tale motivazione non è solo antiscientifica e discriminatoria ma anche molto inquietante; lascia, infatti, supporre che, generalmente, i criteri di sterilizzazione e protezione di ambienti così delicati, non vengano applicati ai loro massimi livelli di sicurezza. Altre forme di discriminazione in ambito sanitario riguardano il rifiuto di prestare cure a persone con HIV, diffuso soprattutto in ambito odontoiatrico, la rivelazione non necessaria e non richiesta dello stato sierologico di pazienti, l’assunzione di comportamenti giudicanti o ghettizzanti verso pazienti con HIV, spesso alimentati dalla mancata conoscenza delle norme di legge e dell’evidenza scientifica U=U, nota ormai da oltre un decennio, un fatto davvero inconcepibile da parte di medici e personale sanitario.

In sostanza, chi fa ricorso alle terapie antiretrovirali  ha una carica virale talmente bassa da non trasmettere il virus, nemmeno in caso di rapporti sessuali non protetti dal profilattico. Grazie alle terapie ART, inoltre, le persone con HIV hanno raggiunto aspettative di vita e condizioni di salute sempre più vicine a quelle della popolazione generale rendendo assolutamente anacronistica ogni valutazione che non risponda a criteri di rischio generali (es: per mutui, polizze, interventi chirurgici ecc) o alla tutela della salute della persona stessa.  

Cosa prevede la legge?

Vale la pena ricordare come la legge 135 del 1990,la legge 135 del 1990, quella attualemnte in vigore, vieti negli articoli 5 e 6 ogni tipo di discriminazione sulla base dello stato sierologico in ogni ambito, da quello sportivo a quello scolastico fino a quello lavorativo, e faccia esplicito divieto ai datori di lavoro di richiedere test per l’HIV in fase di assunzione. Del resto, la convivenza con persone in HIV non ha mai comportato rischio alcuno di infezione. L'HIV non si trasmette mangiando dallo stesso piatto o utilizzando il bagno in comune, né con una stretta di mano o scambiandosi baci e abbracci. Nessuna persona che abbia contatti quotidiani con una persona con HIV è stata mai infettata

Nello specifico ambito sanitario, non lascia dubbi nemmeno il provvedimento del Garante della Privacy del 2009: “Prescrizioni concernenti la raccolta d'informazioni sullo stato di sieropositività dei pazienti da parte degli esercenti le professioni sanitarie”. La deliberazione prescrive esplicitamente ai professionisti della sanità: “Di non raccogliere l´informazione circa l´eventuale stato di sieropositività in fase di accettazione di ogni paziente che si rivolge a questi per la prima volta..fermo restando che tale dato anamnestico può essere legittimamente raccolto, previo consenso informato…”. In particolare per le cure odontoiatriche, nello stesso provvedimento si legge che: “Le misure di protezione dal contagio devono essere adottate, a prescindere dalla conoscenza dello stato di sieropositività del paziente, nei confronti di ogni soggetto sottoposto a cure dentistiche”.

Casi e storie nel 2024

La LILA è solita intervenire rispetto alle segnalazioni che arrivano alle nostre helpline e allo sportello virtuale per le persone con HIV, fornendo informazioni, consulenze legali o attivando azioni di advocacy, nel rispetto di quanto richiesto dalla persona. Per un’analisi più concreta di quanto possa accadere a una persona con HIV nel corso della propria vita, andiamo ad analizzare più da vicino alcuni i casi più eclatanti seguiti dalla LILA nel corso di quest’ultimo anno.

Il tema privacy è stata la preoccupazione principale per quasi l’11% delle persone con HIV che hanno contattato le Helpline nel 2024 e per oltre il 50% delle persone con HIV che hanno usufruito del nostro “Sportello virtuale”, dedicato esclusivamente alle persone che convivono con il virus . Per quanto riguarda invece specifici episodi discriminatori, abbiamo ricevuto 62 segnalazioni: la metà per richieste di test in ambito lavorativo, le restanti relative a discriminazioni subite in altri ambiti, soprattutto, purtroppo, in contesti sanitari. Gran parte delle persone che hanno segnalato discriminazioni ha ricevuto la necessaria consulenza senza richiedere altri interventi da parte nostra. In alcuni altri casi ci è invece stato richiesto un intervento diretto.

Richieste di test in ambito lavorativo

Ben trentuno persone, dunque, ci hanno segnalato nel corso dell’anno problemi connessi alla richiesta di test in ambito lavorativo, tra loro anche alcune persone sieronegative che non intendevano sottoporsi al test. Le richieste riguardavano sia lavoratori già assunti, nell’ambito dei controlli di routine per la sicurezza sul lavoro, sia richieste di test in fase di pre-assunzione. Molte di queste richieste giungono da aziende sanitarie.  A tutti e tutte abbiamo fornito consulenze e indicazioni sui loro diritti e su come potersi attivare in merito. Una persona ci ha chiesto, inoltre, un intervento diretto presso l’azienda. Si è trattato di una lavoratrice con HIV del settore sanitario lombardo cui è stato richiesto un test HIV di controllo. Con la nostra legale, abbiamo scritto all’azienda contestando la decisione in base alle leggi vigenti e alla circolare congiunta dei Ministeri della Salute e del Lavoro del 10 aprile 2013 che meglio definisce il divieto di richiedere indiscriminatamente il test HIV a tutti i lavoratori. L’esito non è stato per ora positivo. L’azienda ha, infatti, disposto per la lavoratrice un’idoneità limitata avendo lei rifiutato il test, ma la nostra azione di pressione prosegue.

Sempre relativamente al lavoro, un piccolo gruppo di segnalazioni riguardava il trasferimento all’estero di lavoratori con HIV e il rischio che venisse loro richiesto un test preventivo. Le consulenze fornite hanno dato loro modo di non dare seguito a questa richiesta e fornito tutte le informazioni per poter continuare a ricevere anche all’estero i trattamenti antiretrovirali. Il trasferimento all’estero rappresenta un problema multiplo per chi ha l’HIV e, talvolta, un vero e proprio incubo. Molti paesi extra UE, soprattutto nel mondo arabo-islamico e dell’est europeo, richiedono obbligatoriamente test HIV per autorizzare l’ingresso entro i propri confini; complesso è anche portare con se i farmaci ART, qualora non si potessero ricevere all’estero: spesso le persone sono costrette a nasconderli in altre confezioni con il rischio di essere scoperti; evitare il trasferimento all’estero è, del resto, spesso impossibile senza rivelare al datore di lavoro il motivo di tale richiesta, con il rischio di subirne le conseguenze.

Casi di violazioni della privacy e discriminazioni in ambito lavorativo

Due i casi (eclatanti) sui quali ci è stato richiesto di intervenire. Il primo ha riguardato una donna dell’Emilia Romagna che ha lasciato per dimenticanza una sua cartella clinica aperta su un computer. Il dispositivo era però condiviso con altre colleghe, una delle quali ha letto il contenuto della cartella e segnalato al direttore della Cooperativa lo stato sierologico dell’altra dipendente. Dopo la nostra lettera di contestazioni ed una successiva telefonata,  il dirigente ha ammesso l’errore e chiesto scusa alla dipendente per il grave episodio di violazione della privacy. Non sappiamo se la collega responsabile della violazione sia stata sanzionata. L’altro caso riguarda un lavoratore assunto come appartenente a categoria protetta a tempo determinato. L’uomo, ha dichiarato al medico del lavoro il suo stato sierologico, ricevendo però solo un’idoneità parziale. Alla scadenza, il suo contratto non è stato rinnovato e il signore è stato inviato a un avvocato per intentare causa all’azienda che lo ha discriminato. 

Violazione della privacy e discriminazioni in ambito sanitario

Molto gravi i casi su cui siamo intervenuti, relativi all’ambito sanitario, per violazioni della privacy, per discriminazioni in occasione di ricoveri e/o interventi, per mancato accesso ai trattamenti o per prestazioni sanitarie negate. I più inaccettabili hanno riguardato un uomo e una donna, in regime di ricovero, rispettivamente, in Puglia e in Toscana che si sono visti etichettare come pazienti HIV con dei cartelli visibili a chiunque. Tali cartelli, apposto nel primo caso su letto, nel secondo sul vassoio del pasto, recavano la scritta: “Paziente con HIV, fare attenzione, usare protezioni”.  Per la vicenda pugliese siamo intervenuti direttamente con l’azienda sanitaria e presso i competenti responsabili regionali e la scritta è stata tolta. In Toscana, invece, siamo intervenuti scrivendo una lettera in cui denunciavano la violazione della privacy della paziente. Non avendo ricevuto risposta alcuna, con il consenso della diretta interessata, abbiamo notificato la violazione al Garante della privacy e siamo in attesa delle sue determinazioni.

Ancora in Puglia, una donna ha chiamato il 118 per un malore seguito a una lite familiare. All’arrivo dei sanitari la signora ha riferito di avere l’HIV e questi lo hanno immediatamente riferito ai Carabinieri, sopraggiunti per sedare la lite. Probabilmente, la notizia è stata ascoltata anche dai vicini presenti. Sempre nella regione un uomo con HIV che necessitava di fisioterapia è stato rifiutato da due centri privati a causa del suo stato sierologico.  Su segnalazione di due persone con HIV, in Sardegna e in Sicilia, abbiamo infine denunciato rischi di violazione della privacy per la decisione delle relative aziende sanitarie di spostare la consegna dei farmaci dal Day Hospital ad altri servizi generali, creando disagi ai pazienti e il rischio di poter essere identificati. Dopo la nostra segnalazione scritta, in entrambi i casi, è stata ripristinata la precedente modalità di consegna dei trattamenti.

In Lombardia, a un uomo in attesa di eseguire un intervento di cataratta, il medico ha detto nel corridoio, davanti a tutti, che lui sarebbe stato l’ultimo a entrare in sala operatoria in quanto HIV+.  La Direzione Sanitaria , dopo aver appreso quanto accaduto, si è scusata facendo sapere che sarebbe intervenuta. In Emilia Romagna, abbiamo seguito il caso di una donna con HIV in gravidanza verso la quale sono state ripetutamente violate le prescrizioni delle Linee Guida del 2017 sull’HIV/AIDS. Le violazioni più eclatanti riguardano la mancata attivazione del gruppo multidisciplinare di medici previsto per seguire la gravidanza delle donne con HIV. Inoltre, al momento del parto, nonostante la signora avesse carica virale soppressa da tempo, le è stata imposta l’assunzione di AZT, pratica superata da tempo, visti anche i pesanti effetti collaterali che il farmaco può provocare. Dopo la nostra segnalazione, solo uno dei due ospedali coinvolti ha risposto, in modo, peraltro, insufficiente. Ci accingiamo, pertanto, a proseguire nella nostra azione di advocacy.

L’ultimo intervento che segnaliamo riguarda una donna cui è stata negata dal centro trasfusionale di un ospedale lombardo la possibilità di donare sangue perché parente di una persona con HIV: una vicenda che sarebbe stata sconcertante anche nel 1985 e che appare davvero inconcepibile nel 2024. La parentela con persone con HIV è peraltro esclusa dai rischi per la donazione del sangue ormai dal lontano 2010. 

Anche in questo caso abbiamo scritto all’ospedale e segnalato il caso per conoscenza all’Avis territoriale che si è detta rammaricata per l’accaduto. Dall’ospedale coinvolto, invece, nessuna risposta. 

I casi che qui esponiamo rappresentano solo una piccola parte di quello che le persone con HIV sono costrette a subire ancora oggi, alle soglie del 2025 –dice Giusi Giupponi, Presidente nazionale LILA- le persone che ci hanno chiesto aiuto hanno avuto il coraggio di cercare supporto o di denunciare ma tante sono quelle costrette a subire senza avere la forza di far valere i propri diritti". Intraprendere la strada dei diritti è il tema della Giornata Mondiale contro l’AIDS: “Ma -conclude Giupponi- c’è da dire che, anche nel nostro paese, siamo davvero ancora molto lontani”.

Hanno collaborato Roberta di Maggio, Giusi Giupponi, Patrizia Perone

 
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