LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della IX Conferenza su Patogenesi, Trattamento e Prevenzione dell'HIV organizzata dall'International AIDS Society (IAS 2017), che si terrà a Parigi dal 23 al 26 luglio 2017.
BOLLETTINO CONCLUSIVO
Decisioni USA sui tagli al PEPFAR nel 2017 determinanti per raggiungere l’obiettivo 90-90-90
Se gli Stati Uniti smettessero di sovvenzionare i programmi per la prevenzione e il trattamento dell’HIV nell’Africa sub-sahariana, da qui al 2030 potrebbero verificarsi 7,9 milioni di infezioni e quasi 300.000 decessi AIDS-correlati in più: è quanto emerge da uno studio dell’impatto dei fondi statunitensi condotto dall’Imperial College di Londra e presentato la scorsa settimana alla 9° Conferenza sull’HIV dell’International AIDS Society di Parigi.
Gli Stati Uniti sono il primo paese donatore a livello mondiale del Fondo Globale per la lotta all’AIDS, alla tubercolosi e alla malaria, nonché il principale finanziatore bilaterale attraverso il PEPFAR (Piano di Emergenza contro l’AIDS del Presidente degli USA): i finanziamenti erogati dal governo statunitense sono dunque fondamentali per la risposta globale all’AIDS.
Finora, gli Stati Uniti hanno stanziato 70 miliardi di dollari per programmi bi- e multilaterali per la lotta contro l’HIV. Nelle proposte di bilancio avanzate a inizio anno dalla nuova amministrazione Trump, tuttavia, è previsto per il 2018 di ridurre di un terzo gli aiuti internazionali e di decurtare i finanziamenti da destinare al PEPFAR a cinque miliardi, dagli oltre sei attuali.
Per quantificare il potenziale impatto di questi tagli, e per mostrare quanto hanno inciso i fondi USA sulla traiettoria dell’epidemia di HIV in 18 paesi dell’Africa sub-sahariana – che, con l’80% dei casi di HIV/AIDS, porta ancora il fardello più pesante a livello mondiale – un’équipe di ricercatori dell’Imperial College di Londra ha sviluppato un modello matematico del rapporto tra sovvenzioni di programmi per prevenzione e trattamento e nuove infezioni da HIV e decessi ad esse correlati.
Il modello mostra che, a partire dal 2000 fino al 2016, la mancata erogazione di fondi da parte degli Stati Uniti – e l’assenza del Fondo Globale, che secondo i ricercatori non sarebbe mai stato istituito senza il supporto statunitense – avrebbe determinato circa 4 milioni di infezioni da HIV e 5 milioni di decessi per AIDS in più rispetto alla situazione attuale.
Nella peggiore delle ipotesi, se gli USA ritirassero il proprio sostegno ai programmi del Fondo Globale e del PEPFAR, da qui al 2030 potrebbero verificarsi fino a 7,9 milioni di infezioni da HIV e circa 300.000 decessi per AIDS in più.
Il modello mostra inoltre che mantenendo gli aiuti livelli attuali la percentuale di persone HIV-positive in trattamento e viralmente soppresse resterebbe invariata: tuttavia, un aumento dei fondi stanziati sia dagli USA che dai singoli paesi a livello nazionale, unito a una maggiore efficienza nella gestione degli stanziamenti in ogni paese, potrebbe consentire rapidi progressi verso l’obiettivo 90-90-90 entro il 2022.
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Ampio studio dimostrativo sulla PrEP in avvio in Francia
Sta per essere avviato in Francia un nuovo studio sulla profilassi pre-esposizione (PrEP) che arruolerà 3000 partecipanti nuovi alla PrEP nell’arco dei prossimi tre anni, ha annunciato Jean-Michel Molina la scorsa settimana a IAS 2017. Mentre gli studi precedenti, compreso IPERGAY (condotto dallo stesso Molina), miravano a comprovare i benefici della PrEP per i singoli individui che la assumevano, questo nuovo studio si prefigge un ambizioso obiettivo a livello di salute pubblica: quello di dimostrare che, se 3000 nuove persone iniziano ad assumere la PrEP, si verificherà una sensibile diminuzione delle diagnosi di HIV tra gli uomini che fanno sesso con uomini nell’area di Parigi.
Contestualmente, saranno anche raccolti dati per individuare le migliori modalità di offerta della PrEP e delle strategie per coinvolgere i migranti e altri gruppi sociali che attualmente conoscono poco questa alternativa per la prevenzione.
La Francia è stato il primo paese europeo ad approvare la PrEP nel gennaio 2016. I farmaci sono disponibili in ospedale, nei centri dove si può eseguire il test HIV e presso il medico di base, e vengono completamente rimborsati dal sistema sanitario francese.
Il nuovo studio, denominato ‘Prévenir’ (prevenire), si focalizzerà sull’Île-de-France, la regione che comprende Parigi e dintorni. L’epidemia da HIV è molto concentrata nella regione della capitale: delle circa 6000 nuove diagnosi avutesi in Francia nel 2015, per esempio, ben 2500 si sono registrate nell’Île-de-France. Uno dei gruppi di popolazione più colpiti è quello dei maschi gay.
Gli studiosi sperano di dimostrare che l’aumento della diffusione della PrEP, con 3000 nuovi individui che l’assumono, porterà un calo del 15% delle nuove infezioni negli uomini che fanno sesso con uomini nell’Île-de-France.
Per aiutare i partecipanti a individuare i dosaggi più adeguati di caso in caso e affrontare eventuali difficoltà pratiche, saranno messi a disposizione dei consulenti reclutati da AIDES tra i loro pari.
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PrEP continua o intermittente?
Uno studio condotto nei Paesi Bassi ha indagato i motivi per i quali i maschi gay preferiscono la profilassi pre-esposizione (PrEP) continua oppure intermittente (o “on demand”), e perché abbandonano un regime a favore dell’altro.
All’inizio di questo studio dimostrativo condotto da AmPREP, quasi tre quarti (72%) dei partecipanti ha optato subito per l’assunzione continua dei farmaci, e quasi metà (43%) di coloro che avevano invece scelto il regime intermittente sono poi passati comunque a quello giornaliero. Di contro, soltanto il 14% dei partecipanti che avevano inizialmente scelto di assumere i farmaci quotidianamente è poi passato al regime intermittente.
In tutto, sono passati da una modalità all’altra 83 dei 376 uomini arruolati per lo studio.
Chi ha scelto l’assunzione continua l’ha fatto perché preferiva assumere i farmaci regolarmente ogni giorno in generale, o perché temeva di incorrere in problemi di aderenza con il regime “on demand”, o ancora perché prevedeva di avere rapporti sessuali molto frequenti o non pianificati.
Chi invece ha optato per il regime intermittente l’ha fatto perché in genere aveva rapporti pianificati, oppure aveva rapporti a rischio solo raramente, o per preoccupazioni legate alla tossicità dell’assunzione quotidiana o alla propria capacità di aderenza.
Gli uomini che sono passati dall’uso intermittente a quello continuo l’hanno fatto perché avevano rapporti a rischio più frequenti o non riuscivano a pianificare i rapporti. Un piccolo contingente di partecipanti ha invece addotto come motivazione gli effetti collaterali dati dall’assunzione “on demand”.
All’opposto, quelli che sono passati dall’uso continuo a quello intermittente l’hanno fatto perché avevano meno rapporti sessuali del previsto, o perché in generale non gradivano di dover assumere farmaci quotidianamente, o perché avevano accusato effetti collaterali. Tra le motivazioni addotte dai partecipanti che sono passati da una modalità all’altra, le difficoltà di aderenza sono state citate solo molto raramente.
Anche se si è verificato di rado, chi ha interrotto l’assunzione dei farmaci ha deciso di farlo principalmente per via degli effetti collaterali (8 casi su 376 partecipanti), oppure perché aveva meno rapporti a rischio o meno occasioni di fare sesso in generale.
Secondo gli autori dello studio, questi risultati sottolineano l’importanza di diversificare l’offerta della PrEP. Nell’elaborazione dei programmi a riguardo occorrerà dunque tener conto che le esigenze di ogni individuo sono soggette a cambiare nel tempo e che molti interromperanno il trattamento per poi riprenderlo più avanti, magari cambiando anche la modalità di assunzione dei farmaci.
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Prima combinazione monocompressa a base di un inibitore della proteasi
Le terapie antiretrovirali raccomandate per il trattamento di prima linea dell’HIV spesso consistono in un regime monocompressa a somministrazione giornaliera, ossia l’assunzione di una sola compressa una volta al giorno. Diminuire il numero di compresse da assumere aiuta a mantenere l’aderenza terapeutica, ma per le terapie di seconda linea ci sono ancora poche opzioni di questo genere. Molti pazienti con fallimenti terapeutici alle spalle che hanno sviluppato farmacoresistenza hanno bisogno di un inibitore della proteasi, ossia un farmaco dall’attività antivirale prolungata e potente e un’elevata barriera alla resistenza.
Il primo regime monocompressa a somministrazione giornaliera contenente un inibitore della proteasi ha mostrato di mantenere la soppressione virale in quasi tutti gli individui che sono passati a questo regime dopo aver raggiunto l’abbattimento dell’HIV RNA con un regime multifarmaco, è stato riferito alla Conferenza.
Lo studio EMERALD ha valutato l’efficacia dello switch a un regime monocompressa – denominato D/C/F/TAF – contenente l’inibitore della proteasi darunavir (Prezista), potenziato con cobicistat, ed emtricitabina/tenofovir alafenamide (TAF) come inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI) di backbone. Il regime è stato raffrontato con un trattamento a base di un inibitore della proteasi potenziato, emtricitabina e la vecchia versione del tenofovir, il TDF (tenofovir disoproxil fumarato).
I risultati hanno evidenziato che il 96% dei partecipanti che hanno effettuato lo switch presentava livelli di carica virale non rilevabili a 24 settimane dall’inizio del trattamento; non si sono inoltre registrate differenze in termini di rebound virale rispetto a coloro che avevano proseguito con il regime multifarmaco.
Il regime è stato raccomandato per l’approvazione dal comitato scientifico dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e sarà immesso sul mercato nell’Unione Europea con il nome commerciale di Symtuza dopo l’approvazione ufficiale da parte della Commissione Europea nella seconda parte di quest’anno.
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MK-8591, antiretrovirale sperimentale ad azione prolungata
Un nuovo farmaco antiretrovirale potrebbe consentire il trattamento dell’HIV con un’unica somministrazione alla settimana, secondo i risultati di uno studio presentato a IAS 2017.
L’MK-8591, noto anche come EFdA, è inibitore nucleosidico della traslocazione della trascrittasi inversa (NRTTI) ad azione prolungata attualmente in corso di messa a punto da parte della casa farmaceutica Merck.
In uno studio condotto su 30 individui mai precedentemente trattati per l’HIV, una singola dose di questo farmaco ha dato prova di sopprimere la replicazione HIV di oltre il 90% per almeno sette giorni.
Uno studio condotto su ratti ha evidenziato che una formulazione di MK-8591 somministrata per via iniettiva può mantenere livelli farmacologici efficaci per sei mesi o più.
L’MK-8591 è soltanto uno di vari antiretrovirali ad azione prolungata che hanno attirato l’attenzione a IAS 2017. Alla Conferenza sono stati infatti anche riferiti i risultati di sperimentazioni sull’uso di una formulazione iniettabile di cabotegravir per la PrEP e una terapia sempre iniettabile a base di cabotegravir e rilpivirina da somministrare ogni quattro o otto settimane per il trattamento dell’HIV.
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La terapia con anticorpi ritarda ma non previene il rebound virale dopo l’interruzione del trattamento
Non sono incoraggianti quanto sperato i risultati della prima sperimentazione su un anticorpo ad alta capacità neutralizzante per tenere sotto controllo l’HIV dopo l’interruzione del trattamento: gli autori, però, restano convinti che gli anticorpi monoclonali – selezionati per la loro capacità di neutralizzare diverse varianti dell’HIV – in futuro giocheranno comunque un qualche ruolo nel trattamento dell’HIV.
Ad oggi è stata esplorata una vasta gamma di approcci per curare l’HIV – o, più accuratamente, per ottenere nei pazienti lunghi periodi di remissione senza l’ausilio dei farmaci antiretrovirali. Gran parte di questi tentativi finora sono stati deludenti, ma gli studiosi ripongono ancora speranze in questi anticorpi monoclonali ad alta capacità neutralizzante (bNAb), che sarebbero in grado di contrastare numerosi ceppi del virus.
Trevor Crowell dell’US Military HIV Research Program ha presentato alla Conferenza di Parigi i risultati di un piccolo studio sull’anticorpo VRC01 su 19 individui che avevano iniziato la terapia antiretrovirale a pochissimo tempo di distanza dal momento dell’infezione. I partecipanti, che prima di entrare nella sperimentazione avevano carica virale non rilevabile da due anni, hanno interrotto l’assunzione degli antiretrovirali e hanno ricevuto un’infusione di VRC01 oppure di un placebo ogni tre settimane per 24 settimane.
I medici hanno monitorato il rebound virale. Nel braccio del placebo, tutti i partecipanti tranne uno l’hanno sperimentato entro le tre settimane; in quello del VRC01 il rialzo viremico si è comunque verificato, ma lievemente più tardi (tra le sette e le nove settimane dopo in due partecipanti, 42 settimane dopo in un terzo). Gli autori stanno adesso indagando eventuali fattori associati al ritardo del rebound virale prima di intraprendere ulteriori studi sugli anticorpi ad alta capacità neutralizzante.
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Natimortalità più alta nelle donne con HIV in Regno Unito e Irlanda
Le donne con infezione da HIV sono considerevolmente più soggette ad avere parti pre-termine e a dare alla luce bambini sottopeso o nati morti. Gran parte dei dati relativi ai rischi di eventi avversi alla nascita provengono dall’Africa sub-sahariana: meno si sa, invece, della situazione relativa ai paesi a reddito più elevato.
Il tasso di natimortalità tra le donne affette da HIV nel Regno Unito e in Irlanda dal 2007 al 2015 risulta oltre due volte più elevato rispetto alla popolazione generale, ha riferito la scorsa settimana alla Conferenza di Parigi Graziella Favarato, per conto del National Study of HIV in Pregnancy and Childhood (NSHPC).
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Adolescenti con HIV in Africa, sta meglio chi vive in paesi più ricchi
Se è vero che l’accesso alle terapie antiretrovirali è sempre più ampio, continua a crescere la popolazione di adolescenti che hanno acquisito l’infezione da HIV in fase perinatale (ossia l’hanno contratta dalla madre durante la gravidanza, il parto o l’allattamento). E l’80% degli adolescenti HIV-positivi vive nell’Africa sub-sahariana.
Da uno studio presentato a IAS 2017 è risultato che gli adolescenti che hanno contratto l’HIV in fase perinatale avevano più probabilità di sopravvivere, di crescere più velocemente e di avere un migliore recupero immunitario con il trattamento se vivevano in paesi dell’Africa sub-sahariana a medio e alto reddito (Botswana, Sudafrica) piuttosto che nei paesi a reddito più basso di tutta l’Africa (es. Etiopia, Malawi, Mozambico, Ruanda, Tanzania, Uganda, Zimbabwe).
Lo studio ha preso in esame 30.296 adolescenti HIV-positivi in Africa sub-sahariana che erano entrati nel percorso di cura entro l’età di 10 anni. Nei paesi a reddito meno elevato, l’85% di loro, prima o dopo, ha ricevuto la terapia antiretrovirale (ART): il dato corrispondente relativo ai paesi a reddito medio-basso è dell’87% e quello dei paesi a reddito medio-alto del 95%.
Tra gli adolescenti che nel corso della vita hanno ricevuto la ART, quelli dei paesi a reddito basso o medio basso presentavano però un rischio di morte due o tre volte superiore rispetto a quelli dei paesi a reddito medio-alto. Questi ultimi raggiungevano anche stature più elevate.
Questi risultati sembrano indicare che ci siano altri fattori in gioco, oltre che la mera disponibilità di terapie, fattori che rivestono un ruolo importante per la salute e il benessere degli adolescenti con infezione da HIV perinatale, ha commentato la dott.ssa Amy Slogrove, presentando i dati per conto del Progetto Adolescenti della Global Cohort Collaboration del CIPHER (Collaborative Initiative for Paediatric HIV Education and Research).
Alimentazione, qualità dell’assistenza sanitaria ed eventuale compresenza di altre malattie infettive sono tutti fattori che dipendono dal livello di reddito di un paese, e ognuno impatta sulla sopravvivenza, sulla crescita e sul recupero immunologico degli adolescenti.
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