LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2018, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 4 al 7 marzo 2018.
TERZO BOLLETTINO
Studi clinici in aperto mostrano una maggiore aderenza ed efficacia degli anelli vaginali
Dai risultati intermedi di due studi paralleli in aperto sugli anelli vaginali di dapivirina, presentati mercoledì alla 25° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2018), è emerso che le donne hanno utilizzato l’anello in maniera più continuativa rispetto a studi randomizzati condotti in precedenza. L’uso dell’anello si è rivelato uno strumento più efficace nella prevenzione delle infezioni da HIV, impedendo più della metà delle infezioni che altrimenti si sarebbero verificate.
Questo anello, simile ai classici metodi contraccettivi, è pensato per essere inserito nella vagina per un mese e può essere autonomamente inserito o rimosso.
I due studi in oggetto, HOPE (MTN 025) e DREAM (IPM 032), non sono altro che estensioni in aperto dei due studi randomizzati controllati con placebo noti come ASPIRE (MTN 020) e Ring Study (IPM 027). Questi ultimi avevano riportato un’efficacia rispettivamente del 27% e del 31%.
I due studi in aperto sono molto simili e hanno coinvolto le donne, provenienti dall’Africa sud-orientale, che avevano già preso parte ai due studi randomizzati precedenti. Le partecipanti sono state messe a conoscenza di ricevere un prodotto attivo che si è dimostrato essere efficace e sicuro
Allo studio HOPE hanno preso parte 2017 soggetti, età media 31 anni, mentre nello studio DREAM erano 900, età media 29. Gran parte del campione presentava infezioni sessualmente trasmissibili all’inizio dello studio, rispettivamente il 16% e il 18%. Il processo di reclutamento si è svolto regolarmente e tassi di abbandono soddisfacenti.
In confronto agli studi randomizzati, ci sono stati livelli più alti di aderenza, stimata misurando la quantità di farmaco rimasta nell’anello dopo l’uso. Secondo i risultati, l’89.5% e il 96% delle donne che hanno partecipato a HOPE e DREAM hanno usato l’anello almeno in parte nel mese di studio, rispetto ai risultati precedenti degli studi randomizzati, rispettivamente pari al 77% e 83%.
Gli studi in aperto non prevedono bracci di controllo con placebo (gruppo a cui non viene somministrato il farmaco) e pertanto l’efficacia non può essere misurata direttamente; i ricercatori ritengono, comunque, che l’incidenza HIV nelle due coorti si attesti rispettivamente intorno al 4.1% e 3.9%. Nei due studi i valori erano pari a 1.9% e 1.8%, ciascuno corrispondente ad un’efficacia del 54%.
Jared Baeten del Microbicide Trials Network ha fatto un confronto con la profilassi pre-esposizione orale: l’efficacia emersa dallo studio iPrEx sulla PrEP era solo del 44%, mentre nell’estensione in aperto dello studio aveva raggiunto il 50%, arrivando poi al 100% in soggetti che assumevano quattro o più dosi a settimana. Erano necessarie ulteriori ricerche e progetti dimostrativi per provare l’altissima efficacia della PrEP in casi di alta aderenza.
Gli studi sugli anelli vaginali sono praticamente alla seconda fase di questo processo, ha affermato Baeten. I risultati finali saranno disponibili l’anno prossimo e suddivideranno i partecipanti in base ai tassi di aderenza ed efficacia.
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Webcast dell’intervento in cui è stato presentato lo studio HOPE sul sito ufficiale della Conferenza
Webcast dell’intervento in cui è stato presentato lo studio DREAM sul sito ufficiale della Conferenza
Dalla diagnosi al trattamento: a San Francisco bastano in media sei giorni.
A San Francisco il tempo che passa dalla diagnosi di HIV al trattamento è diminuito incredibilmente dal 2013 al 2016, passando da 35 a soli 6 giorni, mentre dal momento della diagnosi al raggiungimento di una carica virale sotto le 200 copie/ml si è passasti, nello stesso periodo, da 134 giorni a 61.
Nel 2015 la città ha dato il via a RAPID, un protocollo mirato ad accelerare l’inizio della terapia, insieme a tante altre iniziative per eliminare le nuove infezioni da HIV. Lo scopo di RAPID è di far iniziare la terapia al paziente HIV+ dopo soli 5 giorni dalla diagnosi: a meno che non si tratti di un caso a rischio di sindrome infiammatoria da immunoricostituzione (IRIS), bisognerebbe iniziare la terapia già dalla prima visita, utilizzando i farmaci più potenti a disposizione, tranne gli antiretrovirali che richiedono esami di laboratorio (come ad esempio abacavir o inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa).
I pazienti recentemente diagnosticati vengono indirizzati alla clinica più appropriata dagli incaricati, in base alla copertura assicurativa e ai bisogni psicosociali dell’individuo. In caso di soggetti a basso reddito è disponibile il programma di copertura sanitaria Medicaid, parte fondamentale del progetto: il 39% dei pazienti inizia la terapia antiretrovirale nelle cosiddette cliniche “safety net” mentre il 60% si rivolge a cliniche che accettano pazienti Medicaid o senza assicurazione sanitaria.
Nel 2016 non è stata registrata nessuna differenza demografica tra chi ha iniziato il trattamento e chi no: il tempo dalla diagnosi alla soppressione della carica virale è diminuito significativamente per tutti i gruppi, in particolare per i senzatetto, coloro che provengono dall’Asia Pacifica e gli ispanici.
I risultati mostrano come una collaborazione multisettoriale sia la chiave per accorciare il tempo che passa tra la diagnosi di HIV alla soppressione virologica, dice il dottor Oliver Bacon del Department of Public Health di San Francisco, ma anche una sorveglianza continua e l’analisi dei vari casi sono cruciali per mappare il percorso verso il trattamento e individuare tutte le possibilità di miglioramento.
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Chi assume statine è meno a rischio di tumori
I soggetti che assumono statine contro il rischio di patologie cardiovascolari, siano questi HIV positivi o negativi, sono meno a rischio di contrarre un cancro, secondo una ricerca presentata ieri alla Conferenza.
Le statine, oltre ad essere usate per abbassare i livelli di grassi nel sangue e ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, riducono l’infiammazione e influenzano positivamente la proliferazione e l’attività delle cellule T, fattore che potrebbe favorire la risposta immunitaria contro i tumori. In realtà i risultati che correlano l’assunzione di statine ai tumori nella popolazione sono contraddittori, ma gli effetti potrebbero essere positivi in soggetti affetti da infezioni croniche come l’HIV che comportano una costanze attivazione immunologica e infiammazione.
Nello studio VACS (Veteran Aging Cohort Study) il dottor Roger Bedimo e il suo team del Veterans Affairs North Texas Health Care Center di Dallas hanno analizzato le correlazioni tra l’esposizione alle statine e il rischio di tumori, identificando 12.014 pazienti in regime di statine e non, un quinto dei quali risultava HIV positivo.
Nella fase di follow up di 5 anni, al 9.0% dei pazienti HIV positivi e al 7.1% di quelli HIV negativi è stato diagnosticato un tumore. In generale, lo studio ha evidenziato che l’esposizione alle statine corrisponde a un 39% di rischio in meno di contrarre la malattia. Dalla ricerca è emerso anche che l’effetto protettivo delle statine è più forte nei pazienti HIV+ rispetto agli altri (49% nel primo gruppo, contro una riduzione generale del 35% nel secondo).
L’effetto protettivo risulta apparentemente più forte nei tumori causati da infezioni virali, tra cui linfomi (causati dal virus di Epstein-Barr), tumori al fegato (epatite B e C), tumori della bocca (papilloma virus umano, HPV) e tumore dell’ano (HPV). Impatto limitato, invece, sul tumore alla prostata.
In generale, considerando tutte le possibili cause di decesso, tra i pazienti che assumono statine il rischio di mortalità è più basso del 45% rispetto a coloro che non le assumono.
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Efavirenz: possibli interferenze sull’efficacia dell’anello vaginale anticoncezionale
Il farmaco antiretrovirale efavirenz riduce significativamente i livelli di entrambi gli ormoni presenti nell’anello vaginale anticoncezioanle se usato dalle donne con HIV: è il risultato di una ricerca presentata mercoledì a CROI 2018. Era già noto che efavirenz andasse ad interferire con alcuni tipi di anticoncezionali, ma si ignoravano gli effetti sull’anello vagianle.
NuvaRing è un anello vaginale a rilascio graduale di etonogestrel (progestinico) e etinilestradiolo (estrogeno) e contiene la quantità di ormoni necessaria a garantire l’efficacia contraccettiva per un intero mese.
I ricercatori hanno misurato le concentrazioni di plasma di etonogestrel e etinilestradiolo all’inizio dell’utilizzo dell’anello vaginale e successivamente al giorno 7, 14 e 21. Allo studio hanno preso parte settantaquattro donne affette da HIV, divise in tre gruppi: nessun regime contro HIV, regime a base di efavirenz e regime a base di atazanavir/ritonavir.
I livelli di etonogestrel si sono abbassati del 76-79% nel gruppo che ha ricevuto efavirenz, mentre nel gruppo a regime atazanavir/ritonavir sono aumentati del 71-79%. I livelli di etinilestradiolo, invece, si sono abbassati del 53-57% nel primo gruppo e del 29-35% nel secondo.
La ricerca ha evidenziato come il trattamento combinato di atazanavir/ritonavir non abbia effetti rilevanti sull’efficacia dell’anello vaginale anticoncezionale.
Preoccupano di più, invece, i risultati legati a efavirenz: “Se fossi una donna che assume una terapia antiretrovirale a base efavirenz non sarei molto tranquilla sull’efficacia contraccettiva dell’anello vaginale”, ha detto la dottoressa Kimberly Scarsi, University of Nebraska Medical Center, durante il suo intervento alla Conferenza
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Donne transgender e cluster di trasmissione
Secondo uno studio filogenetico sulle infezioni da HIV di Los Angeles, le donne transgender sarebbero il gruppo più a rischio di essere in un cluster di casi geneticamente collegati: appartengono, quindi, ad un network ad alta incidenza di HIV.
Le donne eterosessuali cisgender sono il gruppo che meno probabilmente rientra in un cluster; invece, gli uomini eterosessuali cisgender hanno l’1.8 % di probabilità in più di farvi parte, gli uomini che fanno sesso con gli uomini (MSM) il 2.1% e le donne transgender il 2.3%.
Rispetto agli MSM, però, è la diagnosi ad essere molto meno probabile nelle donne transgender.
L’analisi dei cluster mette in luce il comportamento sessuale di un soggetto attraverso le informazioni sulle catene di infezione. Un cluster viene definito come un gruppo di due o più persone i cui virus sono talmente simili da dover avere sicuramente un’origine comune.
Lo studio mostra che le donne transgender hanno il 45% di probabilità in più di entrare in contatto con uomini eterosessuali cisgender rispetto a quanto non ci si aspetterebbe se il contatto fosse casuale, e il 450% di probabilità in più di entrare in contatto con altre donne transgender. Con gli MSM si parla invece di un 22% di probabilità in meno rispetto al contatto causale.
Da quanto emerge dallo studio, anche i partner delle donne transgender tendono molto a creare cluster, il che fa pensare alla presenza di una significativa parte di uomini cisgender - MSM o eterossessuali – che hanno relazioni occasionali o stabili con donne transgender.
Manon Ragonnet-Cronin dell’Università della California, San Diego, afferma che si potrebbero sfruttare i dati che emergono dall’analisi filogenetica per sensibilizzare i partner delle donne transgender sull’argomento e far sì che entrino in contatto con i test contro l’HIV, la profilassi pre-esposizione (PrEP) e l’invio alle cure.
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Ibalizumab e la sua efficacia contro le forme altamente resistenti di HIV
Ibalizumab, un anticorpo monoclonale a lunga durata che impedisce l’ingresso di HIV nelle cellule è attivo contro i ceppi virali che hanno sviluppato una resistenza contro molti altri antiretrovirali: è quanto si apprende da uno studio presentato a CROI 2018.
Durante la Conferenza, la FDA (Food and Drug Administration) ha annunciato l’approvazione di ibalizumab-uiyk, che sarà sul mercato come Trogarzo, destinato ai soggetti HIV positivi con poche terapie disponibili a causa di trattamenti duraturi pregressi o virus resistenti a più farmaci.
Ibalizumab non agisce attaccando direttamente il virus HIV, ma si lega ai recettori CD4 delle cellule T. L’anticorpo deve essere somministrato per via intravenosa ogni due settimane.
Ibalizumab è il primo agente biologico ad essere approvato per il trattamento di HIV, non necessita una somministrazione quotidiana e si tratta della prima terapia anti-HIV ad avere un nuovo meccanismo di funzionamento che sarà introdotta nel prossimo decennio.
Lo studio presentato a CROI ha mostrato risultati di un’analisi su isolati di virus in campioni ematici raccolti dai partecipanti ad un trial clinico a tre fasi: ibalizumab ha mostrato la stessa attività contro il virus di HIV sia che fosse sensibile sia che fosse resistente agli altri tipi di antiretroviali di tutti i gruppi. È la conferma, quindi che ibalizumab è uno strumento cruciale alla lotta contro la farmacoresistenza di HIV.
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Download del poster (PDF) sul sito ufficiale della Conferenza
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