LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXIII Conferenza Internazionale sull'AIDS - AIDS 2020: VIRTUAL, in corso dal 6 al 10 luglio 2020.
SECONDO BOLLETTINO
Brasile, paziente in remissione HIV a lungo termine
Un uomo di San Paolo, Brasile, non presenta tracce di infezione HIV dopo aver sospeso da oltre 15 mesi i trattamenti antiretrovirali e potrebbe dunque rappresentare il primo caso di cura funzionale ottenuta senza un rischioso trapianto di staminali.
Il caso è stato descritto dal dott. Ricardo Diaz, il medico a capo dello studio di cui fa parte il paziente, alla 23° Conferenza Internazionale sull’AIDS (AIDS 2020: Virtual), in corso questa settimana in modalità virtuale.
Ad oggi solo due persone sembrano essere riuscite ad eliminare il virus, Timothy Ray Brown (il “paziente di Berlino”) e Adam Castillejo (il “paziente di Londra”). Entrambi affetti da una forma di cancro, dopo la chemioterapia avevano ricevuto un trapianto di cellule staminali resistenti all’infezione da HIV. Si tratta però di un intervento invasivo, troppo pericoloso per pazienti non in pericolo di vita a causa di un cancro in stadio avanzato. I ricercatori si sono dunque chiesti se, con la giusta combinazione di farmaci, si potesse arrivare a una remissione a lungo termine o persino a una cura, ma in modo più sicuro e meno costoso.
Il paziente, 35 anni, ha partecipato a una sperimentazione clinica denominata SPARC-7, nell’ambito di cui gli sono stati somministrati – in aggiunta alla triplice terapia standard – due ulteriori antiretrovirali, l’inibitore dell’integrasi dolutegravir (Tivicay) e l’inibitore di ingresso maraviroc (Celsentri), a cui è stato aggiunto anche il nicotinamide, una forma idrosolubile della niacina (o vitamina B3). L’uomo ha assunto questo aggressivo regime sperimentale per 48 settimane.
Nel marzo 2019, sotto stretto controllo medico, il paziente ha interrotto il trattamento e oltre 15 mesi dopo non presenta tracce rilevabili né di HIV RNA (il materiale genetico che si misura con il test della carica virale) né di HIV DNA (il materiale che si annida nei reservoir virali).
È senza dubbio di un caso interessante, ma gli esperti hanno prontamente raccomandato di considerarlo con tutte le cautele. Si tratta infatti pur sempre di un singolo individuo, e non sono ancora stati effettuati test approfonditi per verificare l’eventuale presenza di HIV in svariati siti corporei del paziente. Senza contare che altri quattro pazienti trattati con lo stesso regime non sono riusciti a mantenere la soppressione virale.
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Per approfondimento: Has someone been cured of HIV with a cheap, simple drug regimen?
PrEP iniettabile superiore per efficacia a quella orale
La somministrazione di PrEP con un’iniezione eseguita una volta ogni otto settimane si è mostrata più efficace nel prevenire l’infezione da HIV rispetto all’assunzione per via orale in un gruppo di uomini gay e bisessuali e donne transgender, hanno confermato alla Conferenza i ricercatori dello studio HPTN083.
I risultati principali dello studio erano già stati presentati due mesi fa, quando era stato interrotto perché nel braccio della PrEP somministrata per via iniettiva si erano verificate molte meno infezioni che in quello della PrEP ad assunzione orale. All’epoca, gli autori hanno potuto attestare solo la non-inferiorità del regime iniettabile rispetto a quello orale.
Alla presentazione di AIDS 2020, il dott. Raphael Landovitz, ricercatore a capo dello studio, ha invece potuto confermare che l’iniezione del farmaco cabotegravir una volta ogni due mesi aveva superato una soglia predeterminata che ne dimostrava la superiorità, in termini di capacità di prevenzione, rispetto all’assunzione orale di tenofovir disoproxil fumarato più emtricitabina (combinazione nota con il nome commerciale di Truvada).
Per lo studio sono stati reclutati 4566 uomini gay e bisessuali e donne transgender che sono stati randomizzati per ricevere le iniezioni di cabotegravir più un placebo in compressa oppure delle compresse di Truvada più un placebo per via iniettiva. Nel braccio in cui la PrEP è stata somministrata per via orale si sono verificate 39 infezioni (incidenza annuale 1,22%), contro le 13 del braccio con la somministrazione per via iniettiva (incidenza dello 0,41%), pari al 66% di infezioni in meno.
Non è ancora acclarato se le infezioni possono essere attribuite a scarsa aderenza, dato che non sono ancora stati esaminati i dati relativi alla concentrazione ematica dei farmaci e alla farmacoresistenza. Gli effetti collaterali più rilevanti sono stati reazioni locali al sito di iniezione nel braccio del regime iniettabile e una diminuzione della clearance della creatinina (un indicatore della funzionalità renale) in gran parte dei partecipanti di ambo i bracci.
È già in corso uno studio correlato, denominato HPTN084, a cui partecipano 3200 donne cisgender di sette paesi dell’Africa sub-sahariana e che si concluderà l’anno prossimo.
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Come si possono incoraggiare gli uomini a fare il test per l’HIV?
Secondo degli studi condotti in Africa sub-sahariana e presentati questa settimana alla Conferenza, per incoraggiare gli uomini a fare il test HIV è efficace il sostegno di altri uomini o l’offerta di servizi specificamente mirati, mentre nelle strutture sanitarie si perdono molte occasioni per spingerli a sottoporvisi.
In passato erano già stati condotti studi demografici da cui emergeva che gli uomini hanno probabilità più basse di ricevere una diagnosi di HIV o fare il test. Può dunque essere utile individuare dei fattori che possono incoraggiare gli uomini a eseguire il test o a rendere i test più accessibili, in modo da far aumentare l’adesione, e di conseguenza le diagnosi, in questo gruppo di popolazione in Africa sub-sahariana.
Un gruppo di ricercatori dell’ampio studio PopART ha esaminato i fattori che incoraggiavano gli uomini ad eseguire il test per l’HIV durante una campagna porta-a-porta condotta in Zambia. Ne è emerso che il test veniva accettato molto più facilmente se anche altri adulti della famiglia (specialmente se uomini) accettavano di farlo.
Un studio qualitativo separato condotto sempre in Zambia ha invece preso in considerazione il comportamento di un gruppo di uomini di età compresa tra i 20 e i 34 anni nel momento in cui si rivolgevano ai servizi sanitari, riscontrando che l’atteggiamento verso l’offerta del test e di cure sanitarie era fortemente condizionato dalla paura dello stigma associato all’infezione da HIV, della discriminazione e di una poco dignitosa morte per AIDS. I partecipanti hanno inoltre riferito di non sentirsi accolti nelle strutture sanitarie, di non ricevere assistenza dagli operatori sanitari uomini e di sentirsi a disagio nel dover far capo alle stesse strutture di donne e bambini.
Anche in Malawi un gruppo di ricercatori ha preso in esame il ricorso alle strutture sanitarie e al test da parte degli uomini. Si pensa infatti che gli uomini rappresentino un gruppo più difficile da raggiungere per gli operatori proprio perché tendono a non rivolgersi alle strutture sanitarie. Anche se il 65% degli intervistati si era effettivamente recato in una struttura sanitaria nel corso dell’anno precedente – percentuale che sale all’82% considerando i due anni precedenti – solo il 7% ha riferito di aver ricevuto l’offerta di eseguire il test per l’HIV durante una visita svoltasi nell’anno precedente. Soprattutto nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni risultava fossero stati effettuati pochissimi test. Molti degli uomini intervistati (41%) erano poi stati nelle strutture sanitarie solo come accompagnatori. Secondo gli autori dello studio queste visite potrebbero essere una buona occasione per approcciarli e offrire loro il test.
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Il Biktarvy negli ultra-65enni
Secondo uno presentato questa settimana alla Conferenza, lo switch terapeutico al Biktarvy con un regime monocompressa in pazienti oltre i 65 anni ha elevate probabilità di mantenere la soppressione virale.
Ora che la loro aspettativa di vita si è allungata, le persone con HIV sono anche più a rischio di sviluppare altre patologie e dover dunque assumere trattamenti multipli. Sono però ancora pochi i dati disponibili sul trattamento antiretrovirale negli ultra-65enni.
Il Biktarvy, approvato in Europa nel 2018, è un combinato a dosaggio fisso contenente l’inibitore dell’integrasi bictegravir, l’emtricitabina e il tenofovir alafenamide (TAF) – una nuova formulazione del tenofovir che ha meno effetti collaterali a carico di reni e ossa ma che potrebbe causare un aumento dei livelli lipidici e del peso corporeo.
L’analisi presentata alla conferenza ha preso in considerazione 140 pazienti di età uguale o superiore ai 65 anni passati al Biktarvy. I partecipanti erano per quasi il 90% di sesso maschile, per la maggior parte bianchi, e l’età mediana era di 68 anni. Molti presentavano patologie concomitanti, tra cui quantità anomale di lipidi nel sangue (59%), ipertensione (55%), malattie cardiovascolari (24%) e diabete (22%).
A 48 settimane dallo switch al Biktarvy, il 92% dei partecipanti era riuscito a mantenere la carica virale soppressa e non si sono verificati casi di fallimento terapeutico. Il regime si è inoltre mostrato generalmente sicuro e ben tollerato.
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Trattamento di seconda linea, meglio mantenere il tenofovir che passare alla zidovudina
Mantenendo il tenofovir dopo il fallimento del trattamento di prima linea anziché sostituirlo con la zidovudina si sono ottenuti migliori tassi di ritenzione in cura, aderenza e soppressione della carica virale nei pazienti con HIV che hanno partecipato a uno studio condotto ad Haiti, si è appreso questa settimana alla Conferenza.
Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandano l’impiego del tenofovir disoproxil fumarato (TDF) come trattamento di prima linea nei contesti poveri di risorse. In caso di fallimento, la raccomandazione è di sostituire il tenofovir con la zidovudina, ma si tratta di un’opzione poco allettante perché prevede l’assunzione due volte al giorno e dà effetti collaterali.
Un’alternativa per il trattamento di seconda linea è riciclare il tenofovir in un’altra combinazione. Gli autori dello studio in questione hanno condotto un’analisi retrospettiva su 1017 adulti in carico alla clinica GHESKIO di Haiti che hanno subito un fallimento del trattamento di prima linea con tenofovir/lamivudina/efavirenz e che sono passati a un regime contenente o il tenofovir o la zidovudina in combinazione con un inibitore della proteasi.
In coloro che hanno continuato ad assumere il tenofovir è risultato che le probabilità di abbattere la carica virale al di sotto delle 200 copie/ml nel corso dei 12 mesi successivi allo switch erano molto più elevate e i tassi di aderenza notevolmente maggiori.
L’analisi degli outcome a seconda dell’inibitore della proteasi nel nuovo regime ha mostrato che chi continuava con il tenofovir passando a un regime contenente atazanavir/ritonavir da assumere una sola volta al giorno risultava meno incline a interrompere le cure, aveva migliori risultati in termini di aderenza terapeutica ed aveva più probabilità di aver abbassato la carica virale sotto le 200 copie/ml dopo 12 mesi rispetto a chi passava alla zidovudina. Di contro, chi continuava ad assumere tenofovir ma in combinazione con un regime contenente lopinavir/ritonavir da assumere due volte al giorno presentava tassi di ritenzione in cura e livelli di aderenza inferiori a chi passava alla zidovudina.
I ricercatori hanno sottolineato l’importanza di tenere in debito conto l’impatto di effetti collaterali e carico farmacologico nella scelta del regime per il trattamento di seconda linea.
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Infezioni opportunistiche in pazienti che assumono la terapia antiretrovirale in America Latina
Alla Conferenza sono stati presentati dati provenienti da sei paesi dell’America Latina che mostrano come anche con la terapia antiretrovirale a lungo termine permanga il rischio dell’insorgenza di infezioni opportunistiche.
Le infezioni opportunistiche si osservano di solito in soggetti immunocompromessi che non assumono una terapia antiretrovirale efficace. Tuttavia, da uno studio precedente condotto in America Latina era risultato che il tempo mediano necessario per diagnosticare la meningite criptococcica dopo l’inizio del trattamento arrivava a due anni. Un risultato sorprendente, che ha spinto i ricercatori a studiare l’incidenza delle infezioni opportunistiche a esordio tardivo, intese come patologie diagnosticate dopo sei mesi dall’inizio del trattamento.
I partecipanti allo studio erano adulti HIV-positivi che avevano iniziato per la prima volta ad assumere le terapie tra il 2001 e il 2015 in Argentina, Brasile, Cile, Honduras, Perù e Messico. Degli 8776 partecipanti, 899 hanno avuto un’infezione opportunistica a esordio tardivo. Dopo cinque anni dall’inizio del trattamento, si stima che il dato raggiunga un totale dell’8%.
Le infezioni più frequentemente osservate sono state: tubercolosi polmonare (40%); candidosi esofagea (13%); polmonite da Pneumocystis carinii (10%); herpes simplex persistente per oltre un mese (7,8%); e candidosi disseminata (7,3%).
Tra i fattori associati in modo significativo alle infezioni opportunistiche a esordio tardivo si possono rammentare: sesso femminile, giovane età, bassa conta dei CD4 al momento dell’inizio del trattamento. Gli autori dello studio hanno raccomandato di monitorare attentamente i pazienti che presentano queste caratteristiche.
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New South Wales: notevoli miglioramenti nell’adesione al test HIV tra i maschi gay e bisessuali, ma c’è ancora chi resta indietro
In New South Wales e in Australia è stato ottenuto dal 2010 “uno straordinario aumento nell’adesione al test HIV” tra i maschi gay e bisessuali, a quanto emerge da uno studio presentato alla Conferenza. Oltre l’’80% di tutte le nuove diagnosi di HIV in New South Wales riguarda maschi gay e bisessuali, che rappresentano un gruppo target elettivo per gli interventi mirati ad aumentare l’adesione al test.
A seguito di svariate iniziative volte a aumentare la domanda e la capacità dei servizi dedicati, il numero di test eseguiti è aumentato stabilmente dal 2012 in poi, in media del 5,8% all’anno. Soprattutto sono aumentati i test eseguiti da uomini appartenenti a gruppi ad alto rischio, passati da una media di 1,8 all’anno nel 2012 a una di 4,1 nel 2018.
Complessivamente, la quantità di presunte infezioni non diagnosticate in questo gruppo di popolazione è dunque calata e attualmente si stima che le infezioni non diagnosticate negli uomini gay e bisessuali nati in Australia si attesti al di sotto del 3%. Tuttavia, non si è ottenuto ancora lo stesso successo in altri gruppi: le infezioni non diagnosticate negli uomini nati oltremare sembrano infatti essere lievemente aumentate, dal 15,3% del 2010 al 16,9% del 2018.
Per porre rimedio a questa disparità sono stati suggeriti interventi come l’aumento dell’offerta di iniziative sul territorio specificamente rivolte a gay e bisessuali nati oltremare, in particolare quelle che promuovono l’autodiagnosi, sia del tipo dei test a domicilio con risultati immediati sia quelli che prevedono invece la comunicazione dei risultati vai posta. È poi necessario prevedere misure volte ad abbattere le barriere che ostacolano l’accesso alla PrEP, particolarmente problematiche per i neri e per i migranti in tutta una serie di paesi.
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