LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XI Conferenza IAS sull'Hiv (IAS 2021), che si terrà a in modalità virtuale dal 18 al 21 luglio 2021.
TERZO BOLLETTINO
Rischio di COVID-19 grave più elevato con basse conte CD4 e mancata soppressione HIV
In uno studio su casi di COVID-19 in 16 ospedali spagnoli è emerso che i pazienti HIV-positivi con carica virale rilevabile e conta dei CD4 inferiore a 500 sono più a rischio di sviluppare manifestazioni gravi di COVID-19.
Lo studio ha anche mostrato che la presenza di molteplici comorbidità – ipertensione, malattie cardiovascolari, malattie renali croniche o cancro – aumentava notevolmente il rischio di andare incontro un esito grave della malattia, il che conferma i risultati di altri studi condotti su persone con infezione da HIV e popolazione generale.
Svariati ampi studi dimostrano che le persone con HIV sono più esposte al rischio di malattia grave e morte da COVID-19; tra questi anche l’ampio studio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità presentato a IAS 2021.
Per indagare l'impatto di fattori come carica virale, soppressione immunitaria o patologie pregresse sul rischio di esiti gravi per COVID-19 nelle persone affette da HIV, i ricercatori hanno studiato i casi di COVID-19 tra le 13.142 persone in cura per HIV in Catalogna.
La coorte è composta da persone prevalentemente di sesso maschile (81%), di mezza età (età mediana 47 anni), in soppressione virale (81%) e affette da almeno una patologia pregressa. La conta di CD4 mediana è 692.
Al 15 dicembre 2020 era stato diagnosticato il COVID-19 a 749 pazienti (5,7%). Di questi, 103 sono stati ricoverati in ospedale, di cui sette in terapia intensiva. Tredici dei ricoverati sono deceduti per COVID-19.
Le probabilità di ricevere una diagnosi di COVID-19 aumentavano se i pazienti HIV-positivi erano migranti, maschi gay o bisessuali o affetti da almeno quattro patologie concomitanti.
Le persone di età pari o superiore a 75 anni sono risultate tre volte e mezzo più soggette ad andare incontro a esiti gravi per COVID-19 (ricovero o decesso) rispetto ai più giovani. Il rischio è risultato più elevato anche per i migranti.
I ricercatori hanno scoperto che nei soggetti in soppressione virale i livelli di CD4 non incidevano sul rischio di sviluppare manifestazioni gravi di COVID-19, ma in quelli con carica virale rilevabile, se la conta dei CD4 era inferiore a 500, il rischio di esito grave aumentava.
Presentando questi risultati, il dott. Daniel Nomah ha concluso che i fattori di rischio evidenziati nello studio evidenziano la necessità di prioritizzare le persone con HIV nei piani di vaccinazione anti-COVID-19, soprattutto coloro che hanno una carica virale rilevabile e basse conte dei CD4 oppure un alto numero di patologie concomitanti.
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Rari i casi di fallimento della PrEP nei programmi africani, ma alcune infezioni si verificano malgrado la buona aderenza terapeutica
A IAS 2021 è stato presentato il primo studio sui livelli farmacologici e le farmacoresistenze in soggetti che acquisiscono l'HIV nonostante la PrEP (farmaci assunti regolarmente per prevenire l'infezione da HIV) in condizioni reali nell’ambito di programmi per la PrEP attivi in quattro paesi africani, in cui questi programmi stanno conoscendo una rapida espansione.
Sono stati individuati 229 casi di infezione da HIV su circa 104.000 persone che assumevano la PrEP in Sudafrica, Kenya, Zimbabwe ed Eswatini. Anche se qualche caso può essere passato sotto radar, il dato suggerisce che le infezioni da HIV nelle persone che assumono la PrEP siano rare. La maggior parte degli eventi di infezione si sono verificati in persone che assumevano la PrEP da più di tre mesi.
È stata eseguita la genotipizzazione della resistenza per 118 soggetti per cui si disponeva di campioni adatti. Di questi, il 55% non presentava alcuna mutazione di resistenza e il 22% aveva mutazioni per i farmaci di classe NNRTI (non usati nella PrEP), mentre il 23% (27 persone) presentava mutazioni per emtricitabina o tenofovir (farmaci usati nella PrEP).
I ricercatori non possono sapere con sicurezza se le mutazioni siano sorte a seguito dell'assunzione di PrEP o se fossero già presenti nel ceppo virale che queste persone hanno acquisito. La percentuale di coloro che hanno sviluppato una resistenza ai farmaci dei regimi PrEP e agli NNRTI è risultata considerevolmente superiore al tasso di farmacoresistenza riportato in precedenti studi su persone con diagnosi recente di HIV nella regione.
La scoperta più sorprendente è stata che mentre le persone che hanno contratto l'HIV e non presentavano resistenze farmacologiche tendevano anche ad avere bassi livelli di tenofovir nel sangue (indice di scarsa aderenza), quelle con farmacoresistenze sembravano invece aderire bene al trattamento: il 78% di loro presentava infatti livelli di tenofovir coerenti con l'assunzione di quattro/sette dosi a settimana, che dovrebbero essere sufficienti per prevenire l'infezione da HIV.
Una possibile spiegazione è che queste persone abbiano acquisito l'HIV durante un periodo di scarsa aderenza o indisponibilità di farmaci, ma nel momento in cui sono state testate e hanno ricevuto la diagnosi la loro aderenza era di nuovo buona. Presentando i risultati, il dott. Urvi Parikh ha detto che si procederà a valutare la carica virale nelle persone che hanno contratto il virus, poiché livelli molto elevati tendono a indicare un’infezione recente.
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Trattamento HIV iniettabile a lunga durata d’azione fattibile anche con il COVID-19
L’impiego dei farmaci iniettabili a lunga durata d'azione per il trattamento dell’HIV cabotegravir (Vocabria) e rilpivirina (Rekambys) – che vengono somministrati una volta al mese o ogni due mesi da un operatore sanitario – è un’opzione praticabile con successo negli Stati Uniti, stando a quanto emerso da uno studio presentato a IAS 2021. Né gli operatori né i pazienti hanno incontrato particolari problemi a somministrare o ricevere le iniezioni nonostante la riorganizzazione dei servizi sanitari che si è resa necessaria per fronteggiare la pandemia di COVID-19.
Nel gennaio 2020, la Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha approvato questa combinazione (commercializzata in Nord America con il nome di Cabenuva) per la somministrazione mensile. L'Agenzia Europea del Farmaco ha fatto seguito nell'ottobre 2020, approvandola per la somministrazione mensile o bimestrale.
Lo studio presentato alla Conferenza ha esaminato l'implementazione del regime iniettabile in alcune strutture sanitarie statunitensi.
Ventiquattro membri del personale sanitario e pazienti di otto strutture hanno partecipato a una serie di indagini nei primi 12 mesi di implementazione di questo regime. Nel complesso, sia il personale sanitario che gli utenti lo hanno giudicato accettabile e fattibile.
La fattibilità percepita è leggermente diminuita al quarto mese, ma entro il dodicesimo è tornata ad aumentare man mano che venivano stabilite delle procedure da seguire e si prendeva mano con la somministrazione delle iniezioni. Il tutto nonostante i disservizi e le difficoltà causati dal COVID-19.
Interrogati su cosa abbia facilitato il successo dell'implementazione di questo regime, i membri del personale sanitario hanno citato la buona comunicazione da parte degli operatori, il lavoro di squadra e l'ausilio di un pianificatore online. Il tempo necessario per preparare e somministrare un’iniezione tipicamente era di circa mezz’ora. Secondo la maggioranza del personale (70% degli intervistati), le visite mensili hanno apportato altri benefici ai pazienti, tra cui un maggior coinvolgimento con l’operatore sanitario.
Tra gli oltre 100 utenti intervistati, più del 90% ha riferito di preferire le iniezioni alla precedente terapia giornaliera ad assunzione orale.
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Accesso al trattamento dell'HIV migliorato in svariati paesi africani durante il COVID-19
Secondo uno studio presentato a IAS 2021, le persone con infezione da HIV in sei paesi dell'Africa sub-sahariana hanno subito meno interruzioni di trattamento durante e dopo i lockdown per COVID-19 rispetto a prima della pandemia.
Le prime modellazioni dell'impatto del COVID-19 avevano previsto che le persone affette da HIV avrebbero incontrato difficoltà ad accedere al trattamento a causa dei lockdown nazionali, delle limitazioni agli spostamenti e dell’ingolfamento dei sistemi sanitari.
Gli autori di questo studio hanno condotto una valutazione dei dati sull'interruzione del trattamento in Botswana, Eswatini, Namibia, Ruanda, Uganda, Zambia e Zimbabwe.
Gli studiosi hanno esaminato i dati dei programmi di erogazione del trattamento confrontando il numero di pazienti interessati da un'interruzione nei mesi in cui erano in vigore le misure più restrittive (aprile-giugno 2020) con i tre mesi precedenti al lockdown (gennaio-marzo 2020) e i tre successivi (luglio-settembre 2020).
Circa il 2,8% dei pazienti coinvolti nello studio ha subito un’interruzione del trattamento prima del lockdown, il 2,3% durante e il 2,06% dopo. Complessivamente, i pazienti che hanno subito un’interruzione del trattamento prima del lockdown sono risultati il 23% in più rispetto a quelli che l’hanno subita durante il lockdown.
Quanto alle interruzioni del trattamento dopo il lockdown, i risultati variano da paese a paese, ma o sono state inferiori a quelle verificatesi durante il lockdown o sono comunque rimaste inferiori rispetto a prima del lockdown in tutti i paesi considerati, ad eccezione del Botswana.
Tra le strategie attuate per evitare le interruzioni di trattamento si possono citare l’erogazione di farmaci in strutture alternative o in centri attivi sul territorio, la fornitura di quantitativi di farmaci sufficienti per periodi più lunghi (ad esempio per sei mesi anziché tre), l’applicazione del distanziamento sociale e di altre misure di protezione.
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Migliora la soppressione virale in Uganda grazie alla maggiore quantità e rapidità di esecuzione dei test della carica virale
In Uganda si è riusciti a ottenere nell’arco di un anno un significativo aumento dei tassi di soppressione virale grazie a semplici misure per migliorare le procedure di richiesta e velocizzare i tempi di risposta dei test della carica virale, si è appreso questa settimana a IAS 2021.
Sebbene il test della carica virale faccia parte delle prassi consolidate nei programmi di trattamento dell’HIV del paese, ci sono notevoli margini di miglioramento per quanto riguarda il numero di persone che lo eseguono; inoltre, tra il momento in cui viene richiesto il test a quando il paziente ottiene i risultati possono passare anche due mesi.
Venti strutture sanitarie hanno partecipato a uno studio in cui sono state randomizzate per continuare ad applicare le procedure standard o per testare un pacchetto di interventi.Il pacchetto comprendeva: l’inclusione nelle cartelle dei pazienti di un modulo che richiedeva al medico di indicare il risultato dell'ultimo test della carica virale eseguito dal paziente e se ne era stato richiesto uno; la disponibilità di risultati rapidi con un dispositivo Xpert di Cepheid in un hub sanitario locale; documenti con una traccia per guidare le conversazioni con i pazienti quando si parla di carica virale in varie situazioni; e feedback regolari alle strutture mediche sull’andamento della situazione.
Per lo studio sono stati reclutati partecipanti di quattro gruppi a più alto rischio di outcome sfavorevoli senza la tempestiva esecuzione di un test di carica virale (donne in gravidanza e in allattamento, bambini e adolescenti, persone con carica virale rilevabile e persone in ritardo con l’esecuzione del test della carica virale) e un gruppo di adulti non ad alto rischio. I dati relativi al periodo di intervento (2018-2020) sono stati confrontati con quelli dell'anno precedente allo studio.Il tempo di risposta è diminuito in media di 67 giorni nelle strutture interessate dall’intervento, restando invece invariato nel gruppo di controllo. La metà di tutti i risultati è stata ricevuta nell’arco di meno di un giorno. Nelle strutture di intervento è inoltre sensibilmente migliorata anche la richiesta di test della carica virale come indicato dalle linee guida.
Si è registrato un miglioramento anche per quanto riguarda la soppressione virale: dopo un anno, nelle strutture interessate dall’intervento l’83% dei pazienti aveva ottenuto una carica virale non rilevabile, contro il 76% nelle strutture dei gruppi di controllo.
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