LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XVIII Conferenza Europea sull'AIDS (EACS 2021), che si terrà in modalità virtuale ed a Londra, Regno Unito, dal 27 al 30 ottobre 2021.
TERZO BOLLETTINO
Serviranno nuovi sistemi per somministrare le terapie iniettabili
Il dott. Jonathan Angel dell’Ospedale Universitario di Ottawa, in Canada, ha parlato la scorsa settimana alla 18° Conferenza Europea sull’AIDS (EACS 2021) della sua esperienza pratica con la prescrizione dei nuovi antiretrovirali cabotegravir e rilpivirina in formulazione iniettabile. Il dott. Angel non solo ha cinque anni di esperienza nella somministrazione di questi farmaci nell’ambito delle sperimentazioni cliniche, ma è anche uno dei primi medici a somministrarli come trattamento farmacologico di routine.
Il Canada è stato il primo paese ad autorizzare il trattamento antiretrovirale a lunga durata d'azione in questa combinazione, commercializzata in Nord America con il marchio Cabenuva. In Europa, le due formulazioni di farmaci sono in commercio con due marchi separati, Vocabria e Rekambys.
Il dott. Angel ha detto che somministrare le iniezioni a cadenza mensile o bimestrale a un numero cospicuo di pazienti sarebbe un ulteriore onore molto gravoso per ospedali e ambulatori, già oberati di lavoro. In Canada, l’erogazione di questo tipo di trattamento è agevolata dall’esistenza di un programma sponsorizzato da una casa farmaceutica chiamato Cabenuva Supports, che somministra fisicamente le iniezioni tramite una rete di infermieri di assistenza domiciliare e territoriale, personale dei presidi per le cure primarie e farmacisti.
Il dott. Angel ha spiegato che non c’era modo di prevedere quali pazienti avrebbero manifestato un serio interesse per lo switch alla terapia iniettabile: a parte la semplice preferenza per le iniezioni, le ragioni riferite dai pazienti erano molto personali e spesso molteplici. “Una volta a conoscenza della possibilità di passare a un regime iniettabile, ogni paziente sceglie per sé”, ha commentato lo studioso.
La maggior parte dei pazienti di Angel ha scelto di assumere cabotegravir e rilpivirina per un periodo preliminare di quattro settimane per via orale, ma a giudicare da alcuni dei dati rilevati non sarebbe necessario; alcuni infatti hanno deciso di passare direttamente al regime iniettabile. Solo una manciata di pazienti ha deciso di interrompere le iniezioni e tornare alla terapia orale, principalmente per evitare la seccatura di organizzare gli appuntamenti per le iniezioni e il fastidio degli effetti collaterali.
Una possibilità interessante per i farmaci iniettabili potrebbe essere quella dell’impiego temporaneo, in momenti in cui assumere antiretrovirali per via orale è poco pratico, oppure causa nel paziente la preoccupazione che possa rivelare la condizione di positività all’HIV, per esempio quando si è in viaggio. “Stiamo appena iniziando a utilizzare queste tecnologie”, ha commentato il dott. Angel, “e più pazienti vi faranno ricorso, più emergeranno ancora altre questioni di carattere clinico e pratico. Non è detto che questi nuovi regimi siano la soluzione al problema della scarsa aderenza, perché ovviamente si possono saltare anche le iniezioni, ma senza dubbio saranno molti i pazienti che le richiederanno.”
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Segnalato un caso di escrezione virale prolungata di SARS-CoV-2 in una paziente immunocompromessa
I pazienti con infezione da HIV gravemente immunocompromessi possono presentare una prolungata escrezione virale di SARS-CoV-2 (il virus responsabile del COVID-19) senza mostrare sintomi clinici, stando a quanto si evince da un case study presentato alla Conferenza.
Il dott. Irfaan Maan dell’University College di Londra (UCL) ha descritto il caso di una 28enne HIV-positiva a cui a metà 2020 è stato diagnosticato un linfoma a cellule B (un sottotipo di linfoma non-Hodgkin): la paziente presentava una conta dei CD4 di 30 e una carica virale di 354.814 copie/ml, aveva alle spalle una lunga storia di aderenza subottimale alle terapie antiretrovirali e il linfoma le era stato diagnosticato dopo un’interruzione del trattamento durata 10 mesi.
Una volta ripreso il percorso di cura, la donna ha ricominciato ad assumere gli antiretrovirali e ha iniziato la chemioterapia, con buoni risultati a lungo termine per entrambi i trattamenti: tuttavia, la sua conta dei CD4 è rimasta bassa per svariati mesi, finché un tampone molecolare effettuato per rilevare la presenza di SARS-CoV-2 non ha dato esito positivo.
Quello che è insolito è che la paziente è poi risultata positiva al 15° giorno, e al 22°, ancora al 37°, continuando a risultare positiva al tampone molecolare e al test TMA (che utilizza una particolare tecnologia denominata “amplificazione mediata da trascrizione”) fino al 164° giorno dopo il primo test di esito positivo. È invece risultato negativo un test sierologico effettuato al 64° giorno, il che sembra indicare una mancata risposta all’infezione da parte del sistema immunitario. Per tutto il periodo in cui è risultata positiva, la paziente non ha manifestato sintomi correlati al COVID-19.
Già in passato erano stati osservati casi di escrezione virale prolungata in pazienti gravemente immunodepressi, uno dei quali HIV-positivo. Tuttavia, non è chiaro se l’escrezione virale possa rappresentare un rischio di infezione per le altre persone: nel caso della paziente descritta dal dott. Maan, due familiari conviventi non sono stati contagiati.
La paziente è stata costretta all’auto-isolamento per oltre cinque mesi, il che ha avuto su di lei forti ripercussioni a livello psicologico e sociale. Le mancavano i contatti con gli altri, e si sentiva molto giù di morale e frustrata per la situazione, e ha avuto bisogno di grande supporto da parte di medici e psicologi per migliorare il suo stato d’animo e la sua visione della situazione.
È un caso che evidenzia la necessità di approfondire le conoscenze sugli effetti di SARS-CoV-2 e COVID-19 nelle persone con immunodepressione in generale, non solo in termini di risposta al vaccino.
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Elevata accettabilità del vaccino anti-COVID-19 tra le persone HIV+
Una serie di indagini, condotte in svariati contesti, non ha riscontrato livelli insoliti di esitazione vaccinale (riluttanza, ritardo o rifiuto all’adesione) per il vaccino anti-COVID-19 nella popolazione HIV-positiva, è stato riferito alla Conferenza la settimana scorsa. L’indagine più ampia tra quelle presentate è quella condotta in Argentina, su un campione di 1486 persone HIV+: l’84% di questi pazienti ha dichiarato che si sarebbero fatti vaccinare se glielo avesse raccomandato un operatore sanitario, e il 79% se fosse stato reso obbligatorio dal governo. Chi esitava, invece, era mosso principalmente da preoccupazioni circa la sicurezza del vaccino.
Sostanzialmente simili sono i risultati di analoghe indagini condotte in Grecia (81% già vaccinati o disponibili a vaccinarsi), Turchia (70%), Medio Oriente (65%) e nelle fasce più giovani di popolazione nel Regno Unito (75%). Pochi sono i fattori demografici risultati associati all’esitazione vaccinale nei vari studi, e tra questi si possono citare il sesso (femminile), un livello di istruzione più basso e il fatto di non abitare in un grande centro urbano.
Un elemento ricorrente riferito dai pazienti è stato l’impatto positivo dei colloqui con gli specialisti di malattie infettive/HIV presso cui gli intervistati erano in carico: parlarne con il proprio medico e sentirsi raccomandare di vaccinarsi è stato per molti di grande stimolo. Inoltre, data la fondamentale importanza della sicurezza percepita del vaccino, informare e sensibilizzare le persone con HIV sui dati disponibili circa la sicurezza di questa procedura nel loro specifico gruppo di popolazione è molto probabile che farà aumentare ulteriormente l’accettabilità della vaccinazione.
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Europa ancora lontana dagli obiettivi prefissati per l’eradicazione dell’epatite C
Gli Stati dell’Unione Europea sono ancora lontani dal raggiungimento degli obiettivi globali per l’eradicazione dell’epatite C, soprattutto per quanto riguarda riduzione del danno, test e trattamento: è quanto ha riferito alla Conferenza la dott.ssa Erika Duffell del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC).
Con gli obiettivi globali stabiliti nel 2016 ci si prefissava di ridurre del 90% le nuove infezioni virali da epatite e del 65% i decessi dovuti all'epatite virale entro il 2030. La dott.ssa Duffell ha esaminato i progressi finora compiuti verso l’eradicazione dell’epatite C, quella predominante nella regione europea. La maggior parte dei paesi della regione, però, non dispone di stime aggiornate sul numero di persone con epatite C, né su quello delle diagnosi recenti o su quello dei pazienti che con il trattamento aveva raggiunto una risposta virologica sostenuta.
Anche la riduzione del danno non ha ancora raggiunto livelli soddisfacenti. Nel 2019, soltanto tre paesi avevano centrato l’obiettivo di distribuire 200 siringhe per consumatore di sostanze stupefacenti per via iniettiva all’anno, e solo nove hanno riferito di aver raggiunto l’obiettivo di garantire una terapia sostitutiva degli oppiacei al 40% dei consumatori ad alto rischio.
Solo in quattro paesi della regione – Francia, Irlanda, Italia e Svezia – stando alle stime, si era raggiunto l’obiettivo di diagnosticare oltre il 50% delle persone con epatite C entro il 2020. La prevalenza di casi non diagnosticati è particolarmente elevata in Romania e Grecia.
“Il COVID ci ha mostrato come si possono condurre test anche su scala molto larga: dobbiamo incanalare almeno parte di quello che abbiamo imparato e replicarlo anche per le campagne di test per l’epatite C”, ha commentato la dott.ssa Duffell.
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Resta limitata l’offerta della PrEP in Europa centro-orientale
L’offerta di profilassi pre-esposizione (PrEP) da assumere per via orale è ancora lontanissima dall’essere sufficiente nelle regioni d’Europa dove ce ne sarebbe maggiormente bisogno, ha riferito alla Conferenza la dott.ssa Justyna Kowalska dell’Università di Varsavia.
Anche nel paese in cui la PrEP è disponibile per il numero di persone più alto di qualsiasi altro nell'Europa centro-orientale – l'Ucraina, con poco meno di 4000 persone che hanno iniziato ad assumere la PrEP dal 2018 – fornirebbe la PrEP a 62.500 persone, se il suo programma PrEP fosse commisurato alla sua popolazione di persone HIV+ come lo sono i programmi analoghi presenti in paesi come Francia o Regno Unito. E se anche la Polonia ha un programma relativamente ampio, l’offerta di PrEP in paesi come Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca, Georgia e Moldavia è ancora limitata. In sei paesi della regione, poi, addirittura non ci sono ancora piani per l’autorizzazione dei farmaci impiegati per la PrEP.
Persistono gli ostacoli istituzionali all’ampliamento dei programmi per la PrEP: per esempio in alcuni paesi non vengono finanziati dal sistema sanitario; oppure la PrEP non viene raccomandata nelle linee guida nazionali; oppure ancora i farmaci non sono formalmente autorizzati nel paese, il che significa che la loro prescrizione sarebbe “off label” (ossia non in conformità a quanto previsto dalle indicazioni ufficiali) e il medico sarebbe responsabile di eventuali conseguenze dannose.
Il grande interesse per la PrEP ossevato in Polonia e Ucraina è in parte dovuto al fatto che grazie alla PrEP si è creata una rete di centri per la salute sessuale molto accoglienti e attenti ai bisogni degli utenti, che hanno coinvolto e sensibilizzato molti uomini omo- e bisessuali rispetto alle tematiche della salute sessuale in senso lato. In altri contesti, la gran parte dei servizi per la PrEP restano altamente medicalizzati: una maggiore diversità di modelli di erogazione dei servizi potrebbe contribuire a motivare più persone ad abbracciare la PrEP.
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