LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXIV Conferenza Internazionale sull'AIDS (AIDS 2022), che si terrà a Montreal, in Canada, dal 29 luglio al 2 agosto 2022.
SECONDO BOLLETTINO
Donna di Barcellona in remissione HIV da oltre 15 anni senza gli antiretrovirali
Una donna di Barcellona ha una carica virale HIV non rilevabile oltre 15 anni dopo avere interrotto l’assunzione della terapia antiretrovirale. L’HIV non è stato completamente eradicato dal suo organismo, quindi non la si può considerare ‘curata’ in senso stretto, ma sembra essere in remissione prolungata senza l’ausilio dei farmaci, una situazione a cui si fa talora riferimento con l’espressione ‘cura funzionale’.
Il caso è stato riferito alla 24° Conferenza Internazionale sull’AIDS (AIDS 2022) in corso a Montréal, Canada, e online questa settimana.
Sebbene la terapia antiretrovirale riesca a mantenere soppresso l'HIV finché si assumono i farmaci, il virus integra il suo materiale genetico (noto come provirus) nel DNA delle cellule ospiti, dando origine a una sorta di serbatoio detto reservoir virale che è irraggiungibile per gli antiretrovirali e solitamente resta invisibile al sistema immunitario.
Solo una manciata di persone sono ad oggi ritenute effettivamente curate dall’HIV, e hanno tutte ricevuto un trapianto di staminali per il trattamento del cancro da un donatore che era portatore di una rara mutazione, detta CCR5-delta-32, in grado di impedire al virus di penetrare nelle cellule immunitarie.
Questo nuovo caso riguarda invece una donna – soprannominata la “paziente di Barcellona” – a cui all'età di 59 anni è stato diagnosticato l'HIV in fase di infezione acuta. Le persone in infezione acuta hanno un reservoir virale più contenuto, e di conseguenza migliori prospettive di cura funzionale. Al basale, la sua carica virale era intorno a 70.000 e la sua conta dei CD4 era ancora elevata (circa 800).
La donna ha preso parte a un piccolo studio clinico in cui si sperimentavano terapie immunomodulanti. Per prima cosa ha ricevuto un regime antiretrovirale standard a base di lopinavir/ritonavir, tenofovir disoproxil fumarato e lamivudina per nove mesi, più un breve ciclo di ciclosporina A (un immunosoppressivo).
Durante una breve interruzione pianificata del trattamento le è poi stato somministrato un GM-CSF (fattore di stimolazione dei granulociti-macrofagi, un agente che stimola la produzione di globuli bianchi) e interferone-alfa (una citochina che regola l'attività immunitaria innata, o non specifica). La donna ha quindi ripreso la terapia antiretrovirale più un breve ciclo di interleuchina-2 (una citochina che attiva i linfociti T e le cellule natural killer).
Otto settimane dopo, con una carica virale soppressa, ha intrapreso un'altra interruzione terapeutica analitica, ma non si è assistito al previsto rebound virale dell’HIV: anzi, non solo la sua carica virale è rimasta non rilevabile, ma si sono anche ridotte le dimensioni del suo reservoir virale.
Nella speranza di far luce sull’insolita risposta da parte della donna, i ricercatori l’hanno sottoposta a un'analisi genetica, scoprendo che "non presentava i classici fattori genetici" associati al controllo naturale dell'infezione. Hanno inoltre scoperto che le cellule natural killer e i linfociti T citotossici CD8 avevano svolto un ruolo chiave nel tenere a bada l'HIV e che la donna presentava livelli più elevati di alcuni tipi specifici di queste cellule rispetto a quanto si osserva solitamente nelle persone non trattate con progressione tipica dell'HIV.
Sebbene la donna sia un’eccezione nella sua capacità di controllo della replicazione virale post-trattamento e il suo regime sperimentale non sarebbe adatto per un uso diffuso, il suo caso può senz’altro fornire indizi molto utili ai ricercatori per sviluppare strategie più ampiamente applicabili per la remissione a lungo termine.
Link collegati:
- Resoconto completo su aidsmap.com
- Video di YouTube in cui la dott.ssa Dr Núria Climent e il dott. José Alcamí discutono del caso ad AIDS 2022
Servizi PrEP personalizzati per aumentare l’adesione
All’insegna di questo approccio, noto come “fornitura di servizi differenziati” per la PrEP, molti paesi hanno iniziato ad offrire la possibilità di scegliere il ‘quando’ (la frequenza delle visite), il ‘chi’ (il fornitore del servizio), il ‘dove’ (il sito dove viene erogato il servizio) e il ‘cosa’ (il pacchetto di servizi) sulla base delle preferenze dell’utente.
Ad AIDS 2022 sono stati presentati esempi provenienti da svariati paesi in cui questo approccio è stato adottato con successo.
In Kenya, è stata sperimentata l’erogazione della PrEP ogni sei mesi abbinata all’esecuzione di un autotest per l'HIV: l’approccio ha consentito di semplificare la distribuzione della PrEP e di dimezzare il numero di visite alle strutture sanitarie senza impatti negativi su esecuzione dei test, ritenzione in cura o aderenza.
Una ricerca del Ministero della Salute del Brasile ha mostrato che l’aver autorizzato il personale infermieristico a prescrivere la PrEP ha avuto un impatto importante sull'accesso, che è aumentato dell'11% al mese. Il precedente modello di cura prevedeva che solo i medici potessero prescrivere la PrEP.
La possibilità di farsi prescrivere i farmaci dagli infermieri ha aumentato in modo significativo l'accesso alla PrEP da parte delle popolazioni vulnerabili. Nel periodo studiato, il personale infermieristico ha rilasciato prescrizioni in percentuali più alte rispetto ai medici sia a sex worker che a persone che facevano uso di stupefacenti. Quando a prescrivere la PrEP erano solo i medici, la maggior parte degli utenti in Brasile erano bianchi, mentre adesso il 63% delle persone che assumono la PrEP è di etnia nera.
In Vietnam, un aumento dell’accesso alla PrEP si è ottenuto invece differenziando il ‘dove’, ossia affidandosi a strutture gestite da operatori sanitari appartenenti a popolazioni chiave, che sono cioè essi stessi MSM (uomini che fanno sesso con altri uomini) o donne transgender.
Alla Conferenza sono stati presentati i risultati relativi a una provincia, suddivisi in base ai siti a cui si sono rivolti gli utenti. Su 3432 utenti, il 32% ha iniziato la PrEP presso una struttura sanitaria pubblica, il 32% presso una struttura gestita da operatori appartenenti a popolazioni chiave, il 23% attraverso la telemedicina, il 10% presso una struttura privata e il 2% presso un servizio mobile.
Nelle strutture gestite da appartenenti a popolazioni chiave in Thailandia, insieme ai servizi per la PrEP viene offerto anche uno screening per le infezioni sessualmente trasmissibili. Alla Conferenza si è parlato di un modello di assistenza in cui la valutazione del rischio viene effettuata tramite la compilazione di un questionario online e il counseling è offerto tramite telefonata o videochiamata. L’utente si reca fisicamente nella struttura solo per il prelievo del campione biologico per il test.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato proprio alla Conferenza un nuovo documento tecnico mirato a coadiuvare i paesi nell’elaborazione e nell’attuazione di servizi differenziati per l’erogazione della PrEP all’interno dei loro programmi nazionali.
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Le persone transgender escluse dai piani strategici contro l’HIV
In un campione di 60 paesi del mondo con elevata prevalenza HIV, solo nell’8% dei casi le persone transgender risultavano incluse pienamente in tutti gli aspetti dei piani strategici nazionali contro l’HIV. Nei piani di alcuni di questi paesi le persone transgender non venivano neppure nominate, ha rivelato una ricerca presentata ad AIDS 2022.
Le donne transgender hanno una probabilità 66 volte superiore di avere un’infezione da HIV rispetto alla popolazione adulta generale, e la probabilità per gli uomini transgender è quasi sette volte più elevata.
Gli autori dell’indagine hanno analizzato 60 piani strategici nazionali dei paesi con la più alta prevalenza di HIV in Africa orientale e meridionale (16), Africa occidentale e centrale (15), Asia e Pacifico (13), America Latina e Caraibi (9) ed Europa orientale e Asia centrale (7).
Per ogni piano è stata verificata l'inclusione delle persone transgender in cinque sezioni: parte espositiva, dati epidemiologici, indicatori e obiettivi di monitoraggio e valutazione, attività nelle varie fasi del continuum di cura e budget.
Nel 65% dei piani esaminati, le persone transgender venivano nominate in almeno una sezione, ma soltanto nell'8% venivano incluse in tutte e cinque le sezioni chiave, mentre paesi come Cina, Vietnam, Etiopia e Tanzania non le includevano affatto.
Gli studiosi raccomandano che i governi instaurino un serio dialogo con le comunità transgender per la formulazione piani strategici. I finanziatori internazionali, come il Fondo Globale e il PEPFAR, possono fornire assistenza tecnica e finanziamenti alle organizzazioni delle persone transgender, ma possono anche richiedere che queste persone vengano incluse in qualsiasi ricerca che stanno finanziando.
I sostenitori di questa comunità devono poter decidere cosa includere nel piano strategico del loro paese (per esempio un budget specifico da destinare alla prevenzione dell'HIV tra le persone transgender o l'impiego del supporto tra pari nell’esecuzione delle attività di testing per l’HIV) e come interloquire al meglio con i funzionari governativi per garantire alle persone transgender rappresentanza e inclusione.
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L’approccio test-and-treat per l’HIV riduce l’incidenza della tubercolosi
Lo studio SEARCH è uno dei più ampi studi mai realizzati sull’implementazione della strategia di offerta universale di test e trattamento. Per lo studio, svolto tra il 2013 e il 2016 in alcune comunità rurali dell'Uganda e del Kenya, le comunità sono state randomizzate per ricevere l'intervento o lo standard di cura previsto dalle linee guida nazionali.
L'intervento consisteva in: una campagna di prevenzione che includeva test per HIV, diabete e ipertensione, con un evento della durata di due settimane dedicato alla promozione della salute e con offerta di test a domicilio in ogni comunità; presa in carico di chiunque fosse risultato positivo; e immediata somministrazione di terapia antiretrovirale, indipendentemente dalla conta dei CD4, per chiunque risultasse positivo al test.
Già i risultati precedenti avevano mostrato l’impatto decisamente positivo dell’intervento, con alti tassi di adesione al test HIV e un’elevata soppressione virale.
Questa analisi si è invece concentrata sull’incidenza della tubercolosi in nove comunità ugandesi, in cui lo screening dei sintomi di questa malattia faceva parte dell’intervento.
I ricercatori hanno testato al basale 4884 persone appartenenti a 1435 nuclei familiari, la maggior parte dei quali era al di sotto dei 18 anni d’età. Il 22% è risultato positivo al basale (il che indica una precedente esposizione alla tubercolosi). Un anno dopo, il 78% di coloro che erano risultati negativi al basale potevano ripetere il test.
Dopo un anno, l'incidenza della tubercolosi nelle comunità di intervento è risultata inferiore del 27%. La riduzione del rischio era statisticamente significativa per i bambini di età compresa tra 5 e 11 anni, ma non per i partecipanti di età pari o superiore a 12 anni, probabilmente perché adolescenti e adulti avevano maggiori probabilità di essere stati esposti alla tubercolosi in precedenza.
Secondo la dott.ssa Carina Marquez, è probabile che la ridotta incidenza della tubercolosi abbia diverse cause, tra cui il minor periodo di tempo in cui le persone restano infettive grazie alla più efficace individuazione e al tempestivo trattamento della tubercolosi attiva resi possibili dallo screening dei sintomi. È poi probabile che meno infezioni progrediscano in tubercolosi attiva per via dei benefici al sistema immunitario offerti dal trattamento antiretrovirale, il che risulta in una riduzione generale del numero di persone con tubercolosi attiva nella comunità.
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La scarsa risposta anticorpale osservata in uno studio mostra la necessità di un cambio di rotta per la ricerca di un vaccino per l’HIV
Purtroppo nessuno studio di efficacia ha ottenuto un risultato neanche lontanamente paragonabile alla riduzione del 31% delle infezioni osservata nello studio RV144, ormai 13 anni fa.
Per lo studio Imbokodo sono state reclutate 2600 giovani donne in cinque paesi dell'Africa meridionale. Nelle partecipanti a cui è stato somministrato il vaccino si è osservato il 14% in meno di infezioni rispetto a quelle che hanno ricevuto un placebo, ma è un dato che non raggiunge la significatività statistica (in altre parole, potrebbe essere un caso).
Gli autori hanno esaminato 270 partecipanti che sono rimaste negative all'HIV e le hanno confrontate con altre 54 partecipanti che hanno invece acquisito l'infezione. Hanno trovato un solo elemento correlato al rischio: le donne con anticorpi che reagivano più intensamente a due parti specifiche della proteina dell'involucro dell'HIV (dette loop V1 e V2) avevano circa il 30% in meno di probabilità di contrarre il virus.
Dall’analisi si evince che i vaccini a nostra disposizione riescono a ingenerare un certo grado di immunità all’HIV, ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di una risposta troppo debole, e soprattutto troppo specifica, per avere un’effettiva efficacia.
Gli studiosi attivi nella ricerca di un vaccino contro l'HIV hanno discusso alla Conferenza dell’opportunità di orientare il loro lavoro attuale e futuro in una nuova direzione, e utilizzare la tecnologia dell'RNA messaggero (mRNA) per creare vaccini contro l'HIV. Negli ultimi mesi sono stati avviati diversi studi per valutare l’impiego di vaccini sperimentali a mRNA.
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La diffusione della PrEP non conduce a un aumento dell’epatite C
Tra i maschi omo- e bisessuali HIV-positivi, nel corso del decennio prima che il trattamento antivirale ad azione diretta per l'epatite C diventasse ampiamente disponibile era aumentata la prevalenza dell’infezione. L'epatite C sembrava diffondersi in reti sessuali in cui i rapporti anali non protetti avvenivano prevalentemente tra uomini con infezione da l'HIV.
Si temeva quindi che un maggiore uso di PrEP a scapito del preservativo in questo gruppo di popolazione potesse condurre a un aumento dell’incidenza dell’epatite C tra i maschi omo- e bisessuali HIV-negativi, conseguente al maggior numero di rapporti sessuali non protetti tra partner sierodiscordanti.
Il gruppo di ricerca di Melbourne ha condotto una revisione sistematica e una meta-analisi per indagare l’incidenza dell’epatite C concomitante all’uso di PrEP in alcune coorti di maschi omo- e bisessuali, nonché la prevalenza dell’epatite C negli uomini che iniziano ad assumere la PrEP.
Gli studiosi hanno preso in considerazione 18 studi pubblicati tra il 2015 e 2022 e condotti in Australia, Nord America ed Europa. L'incidenza dell'epatite C è risultata più alta negli studi iniziati prima che ci fosse ampio accesso agli antivirali ad azione diretta.
La loro conclusione è che l’assunzione del trattamento antivirale abbia probabilmente ridotto la trasmissione nelle reti sessuali degli uomini omo- e bisessuali.
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