LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXII Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche, in corso a Seattle, negli Stati Uniti, dal 23 al 26 febbraio 2015.
QUARTO BOLLETTINO
Tre ARV associati a un aumentato rischio di malattia renale
Stando a un'analisi dell'ampia coorte osservazionale D:A:D, tre farmaci antiretrovirali sarebbero associati a un lento aumento, nel tempo, del tasso di malattia renale. I farmaci in questione sono tenofovir, atazanavir potenziato e lopinavir potenziato.
Gli studiosi hanno valutato il rischio di sviluppare una malattia renale cronica (eGFR inferiore a 60 ml per minuto) da parte di soggetti che presentavano normale funzionalità renale al momento dell'inclusione nella coorte. La stima della velocità di filtrazione glomerulare, o eFGR (estimated glomerular filtration rate), è una misura indiretta della quantità di sangue filtrata al minuto dai reni, ed è un metodo utilizzato per valutare la funzionalità renale. Sono stati raccolti dati su 23.560 pazienti nell'arco di otto anni.
Complessivamente, il rischio è risultato poco elevato: meno dell'1% dei partecipanti (210 pazienti) ha sviluppato una malattia renale cronica.
Come atteso, svariati altri fattori sono risultati associati alla malattia renale: età più avanzata, ipertensione, epatite C, diabete, malattia cardiovascolare, bassi livelli di CD4 in passato e pregresso uso di stupefacenti per via iniettiva.
Tuttavia è stata riscontrata anche un'associazione con taluni antiretrovirali, e più a lungo venivano assunti, più il rischio aumentava. L'incidenza è risultata del 2,2% dopo sei anni di tenofovir; del 4% dopo sei anni di atazanavir potenziato; e ancora del 4% dopo sei anni di lopinavir potenziato.
Dopo la correzione per altri fattori di rischio di malattia renale, ogni anno di assunzione di tenofovir è risultato associato a un aumento del 12% del rischio relativo; ogni anno di atazanavir potenziato a un aumento del 27%; e ogni anno di lopinavir potenziato a un aumento del 16%.
Di contro, non sono state riscontrate associazioni con aumenti del rischio né per l'abacavir né per altri inibitori della proteasi. I dati disponibili, tuttavia, non erano sufficienti per l'analisi di altri singoli farmaci.
Per quanto la malattia renale resti poco diffusa e più correlata ad altri fattori di rischio 'tradizionali' piuttosto che all'assunzione di antiretrovirali, è probabile che questi dati forniscano informazioni utili ai medici che prescrivono un regime antiretrovirale, specialmente a pazienti che presentano altri fattori di rischio di problemi a carico dei reni.
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Treatment cascade, incentivi in denaro risultano inefficaci in città americane
In uno studio americano è stata sperimentata l'offerta di incentivi in denaro ai pazienti perché accettassero di intraprendere il percorso di cura dopo la diagnosi di HIV, e di ulteriori incentivi se riuscivano a restare in cura e se raggiungevano una carica virale non rilevabile: nella maggior parte dei casi, però, non si sono raggiunti i risultati sperati. Dei miglioramenti a seguito dell'intervento si sono invece registrati in qualche piccola struttura che faticava a mantenere i pazienti nel continuum di cure.
Gli incentivi in denaro, in passato, si erano dimostrati efficaci nel coinvolgimento dei consumatori di sostanze stupefacenti e, in alcuni studi africani, avevano consentito un miglioramento degli outcome terapeutici per l'HIV.
Lo studio si è svolto in due aree urbane afflitte da pressanti problemi sociali ed economici: Washington e il Bronx, a New York. Svariate decine di centri diagnostici e ambulatori specialistici sono stati interessati dalla sperimentazione: alcuni sono stati randomizzati per continuare a offrire cure standard, altri per proporre gli incentivi. In questi ultimi, ai pazienti che ricevevano una diagnosi HIV veniva offerto un buono di 25 dollari se si fossero presentati a una visita nei tre mesi successivi, e uno di altri 100 dollari se avessero elaborato un piano di assistenza con il medico. Avrebbero poi ricevuto un altro buono di 70 dollari ogni tre mesi se si fossero presentati alle visite successive e avessero raggiunto la soppressione virologica.
Alla prova dei fatti, tuttavia, gli incentivi non hanno inciso in modo statisticamente significativo sulla percentuale di pazienti che si presentava alla visita nei tre mesi successivi alla diagnosi, né in quella di pazienti che raggiungeva la soppressione. L'unico miglioramento, lieve (8%) ma pur sempre statisticamente rilevante, si è registrato nella percentuale di pazienti che si presentavano ad almeno quattro visite su cinque.
I miglioramenti più rilevanti sono stati osservati in strutture che prima dell'intervento avevano risultati insoddisfacenti in termini di ritenzione in cura, tendenzialmente i centri più piccoli e carenti di risorse. Gli autori ritengono che un siffatto sistema di incentivi possa comunque incidere positivamente sulle treatment cascades in specifici siti e gruppi di popolazione.
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Tumori, tumori polmonari e fumo
Resta altissima l'incidenza di tumori negli ultrasessantacinquenni americani che vivono con l'HIV, malgrado l'ampia diffusione della terapia antiretrovirale: è quanto emerge da alcuni studi presentati al CROI. Il rischio di tumore può essere collegato sia all'infezione da HIV che all'invecchiamento.
Gli studiosi hanno raccolto dati relativi al periodo 2002/2009 di un campione di 5% di pazienti iscritti a Medicare (il programma nazionale di assistenza agli ultrasessantacinquenni in vigore negli Stati Uniti), rapportandoli con i dati di un registro tumori. Il campione finale consisteva in oltre 450.000 pazienti, di cui qualche centinaio affetto dal virus dell'HIV.
Nel complesso, in un arco di tempo di cinque anni il 10,2% dei pazienti HIV-positivi di questa fascia d'età ha ricevuto una diagnosi di tumore. In termini assoluti, i più frequenti sono stati il tumore alla prostata e ai polmoni: tuttavia i tassi di tumori alla prostata non differivano da quelli rilevati in pazienti HIV-negativi.
Alcuni tipi di tumore, tuttavia, sono risultati notevolmente più diffusi nei pazienti HIV-positivi: si tratta sia dei cosiddetti tumori AIDS-definenti (per esempio il linfoma non-Hodgkin, rapporto di rischio 3,0; e il sarcoma di Kaposi, rapporto di rischio 79,2), sia di altri tipi di neoplasie già note per essere più diffuse nei pazienti HIV-positivi più giovani (per esempio il carcinoma anale, rapporto di rischio 32,4; e il tumore polmonare, rapporto di rischio 1,5).
In un secondo studio sono stati invece presi in esame i tassi di tumore in oltre 39.000 americani HIV-positivi, escludendo però i casi di tumore AIDS-definente. In un arco di tempo di dieci anni, sono stati quasi 600 i partecipanti che hanno avuto una diagnosi di tumore non-AIDS-definente, e tra questi il più diffuso è risultato il tumore al polmone. Scopo degli autori era valutare in che misura l'insorgenza del tumore non-AIDS-correlato poteva essere attribuita al fumo piuttosto che ad altri fattori di rischio correlati all'HIV (frazione attribuibile nella popolazione).
Il risultato è che si potrebbe evitare il 37% dei casi di tumore se tra le persone con HIV ci fosse lo stesso tasso di fumatori che nella popolazione generale. Il fumo è risultato di gran lunga il più rilevante fattore di rischio modificabile: incide di più, per esempio, che mantenere la conta dei CD4 sempre al di sopra delle 200 cellule/mm3, o avere una carica virale rilevabile, o un'infezione epatica.
Mentre non si smette di sottolineare l'importanza dei programmi per aiutare le persone HIV-positive a smettere di fumare, alla Conferenza sono stati presentati i risultati di uno studio randomizzato su una sostanza utilizzata per trattare la dipendenza da fumo, la vareniclina (Champix/Chantix). http://www.aidsmap.com/page/2950745/ La sperimentazione ha interessato un gruppo di fumatori HIV-positivi in Francia, che per 12 settimane hanno assunto o la vareniclina o un placebo, usufruendo anche di interventi di counselling.
Il farmaco ha inizialmente aiutato a smettere di fumare una percentuale molto più alta di partecipanti; tuttavia, dopo 48 settimane, solo il 17,6% risultava non fumare più, contro il 7,2% del braccio del placebo. Sono dati simili a quelli già osservati in popolazioni HIV-negative che facevano uso di vareniclina, bupropione (Zyban, Wellbutrin), prodotti alla nicotina come i cerotti transdermici, oppure che si aiutavano solo con il counselling. Nessun intervento ha dato da solo prova di efficacia per più di un quarto/un terzo della popolazione che ne ha usufruito. È possibile che sia più efficace combinare insieme vari interventi piuttosto che affidarsi a uno solo di questi metodi.
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- Resoconto completo sullo studio sui tumori tra gli ultrasessantacinquenni HIV-positivi
- Webcast della presentazione
- Resoconto completo sullo studio sul fumo come fattore di rischio per tumori non-AIDS definenti nei pazienti HIV-positivi
- Webcast della presentazione
- Resoconto completo sullo studio sulla vareniclina nei pazienti HIV-positivi
- Webcast della presentazione
Epatite C, rinviare il trattamento aumenta il rischio di tumore e morte
I pazienti con coinfezione HIV/HCV che rinviano il trattamento dell'epatite C finché non sviluppano una patologia epatica di stadio avanzato restano a rischio di complicanze e morte per cause epatiche, come rivela uno studio basato su modelli matematici.
Durante l'era della terapia anti-epatite C a base di interferone, gli esperti generalmente raccomandavano ai pazienti di rinviare il trattamento fino a che non si osservava una progressione della malattia epatica. Sebbene i farmaci anti-epatite C di nuova generazione siano più efficaci e diano meno effetti collaterali, infatti, il loro uso è stato ed è limitato dai loro costi elevati, tanto che alcune compagnie assicurative e sistemi di assicurazione sanitaria pubblici e privati coprono i costi del trattamento solo per i pazienti più gravi.
Nello studio è stato applicato un modello matematico ai dati relativi a un gruppo di MSM (uomini che fanno sesso con uomini) in Svizzera.
Questi i risultati: se il trattamento con la terapia anti-epatite C di nuova generazione veniva iniziato entro un anno dalla diagnosi, solo il 2% dei pazienti alla fine sviluppava un tumore epatico maligno (epatocarcinoma) e solo il 3% moriva per complicanze collegate alla patologia epatica. Non si sono invece riscontrati vantaggi nell'iniziare il trattamento un mese dopo la diagnosi anziché un anno.
Se invece il trattamento era rinviato fino a che il paziente non sviluppava una fibrosi epatica grave (stadio F3), la percentuale di coloro che sviluppavano un epatocarcinoma saliva all'8% e quella di coloro che morivano per complicanze al 10%. Inoltre, se si attendeva finché la fibrosi non degenerava in cirrosi (stadio F4), queste percentuali aumentavano rispettivamente al 20 e 25%.
Va rilevato che il rischio che questi gravi eventi si verificassero non era ridotto a zero neppure con i più moderni ed efficaci trattamenti. Nella maggior parte dei casi, essi si verificavano dopo la guarigione dall'epatite C in pazienti con precedenti di grave fibrosi o cirrosi.
Rimandare il trattamento incide anche sulla durata del periodo in cui i pazienti erano infettivi: circa cinque anni per quelli che assumevano la terapia entro un anno dalla diagnosi, contro 15 per coloro che rimandavano fino a che non avevano sviluppato una fibrosi grave e fino a circa 20 anni se attendevano fino a sviluppare una cirrosi.
Sono dati che depongono a favore di un inizio precoce della terapia anti-epatite C, prima che il danno epatico sia significativo. Tuttavia, da un secondo studio emergerebbe che, attualmente, circa la metà degli americani affetti da epatite C ha già sviluppato fibrosi grave o cirrosi. Tali casi si concentrano prevalentemente nella cosiddetta generazione dei 'baby boomers', coloro che sono oggi tra i 50 e 70 anni d'età.
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Impiego del maraviroc nella PrEP
La ricerca relativa alla PrEP (profilassi pre-esposizione) per adesso si è prevalentemente concentrata sulla combinazione tenofovir/emtricitabina (Truvada), ma ci sono anche ricercatori al lavoro su altri agenti antiretrovirali da assumere in varie modalità (compresse, gel, anelli vaginali).
In particolare, è in corso uno studio di fase 2 sull'inibitore di ingresso maraviroc in compressa (Celsentri/Selzentry). È un'opzione interessante perché il maraviroc agisce in una delle prime fasi dell'infezione, impedendo al virus dell'HIV di agganciarsi al co-recettore CCR5 che tipicamente utilizza per infettare le cellule (altri antiretrovirali mirano invece a inibire la replicazione virale quando il virus è già entrato nella cellula ospite).
I ricercatori sperano inoltre che le nuove formulazioni per la PrEP riescano a raggiungere alte concentrazioni nei tessuti vaginali e rettali con una sola dose, risultando così particolarmente indicate in caso di rapporti programmati.
Da uno studio di laboratorio presentato alla Conferenza, tuttavia, sembrerebbe che un'unica somministrazione non sia sufficiente. A qualche ora di distanza dall'assunzione del maraviroc, ai partecipanti allo studio sono stati prelevati con una biopsia dei campioni di tessuto rettale e vaginale, che sono stati successivamente esposti all'HIV.
Le concentrazioni di farmaco restavano elevate fino a quattro ore dopo l'assunzione, ma diminuivano drasticamente subito dopo. E, soprattutto, l'effetto protettivo antivirale era limitato.
Tuttavia sono state sollevate obiezioni sull'effettiva affidabilità di tali analisi di laboratorio per prevedere come i risultati che il maraviroc potrebbe ottenere in vivo. Senza contare che lo studio non ha considerato il livello di protezione che sarebbe offerto dall'assunzione di dosi multiple.
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BMS-663068, una nuova molecola per pazienti non naive
Sono incoraggianti i risultati a 48 settimane di uno studio di fase 2b della Bristol-Myers Squibb sul BMS-663068 (fostemsavir) presentati al CROI.
Si tratta di una molecola appartenente a una nuova classe di antiretrovirali, gli inibitori dell'aggancio. Il BMS-663068 si lega direttamente alla proteina gp120, gli 'spunzoni' sull'involucro dell'HIV, impedendo così al virus di agganciarsi alla cellula CD4 per penetrarla. Gli antagonisti del CCR5 come il maraviroc (Celsentri/Selzentry) e gli inibitori della fusione come l'enfuvirtide (Fuzeon) agiscono in fasi successive del ciclo di vita dell'HIV: perciò il BMS-663068 avrebbe il vantaggio di essere efficace con ceppi dell'HIV che sfruttano non solo il recettore CCR5 ma anche il CXCR4.
Per lo studio sono stati arruolati 254 pazienti con esperienza di trattamento pregressa, la maggioranza dei quali avevano avuto un fallimento terapeutico nel trattamento di prima o seconda linea oppure avevano sviluppato farmacoresistenze. Due partecipanti su cinque avevano una conta dei CD4 inferiore alle 200 cellule/mm3. Dato che l'arruolamento si è svolto in paesi a medio reddito, allo studio ha partecipato un numero maggiore di donne, pazienti di etnia nera e pazienti con sottotipo HIV diverso dal B rispetto agli studi precedenti.
I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere il BMS-663068 (in uno di quattro diversi dosaggi, da assumere o una o due volte al giorno) insieme a raltegravir e tenofovir. Ai pazienti del gruppo di controllo sono stati somministrati atazanavir potenziato con ritonavir, raltegravir e tenofovir.
Alla 48° settimana sono stati registrati tassi di risposta simili: tra il 61 e l'82% dei pazienti nel braccio del BMS-663068 avevano una carica virale non rilevabile (con variazioni attribuibili al dosaggio), contro il 71% del braccio dell'atazanavir. Il nuovo farmaco si è dimostrato generalmente sicuro e ben tollerato in tutti i dosaggi sperimentati.
Dall'analisi delle potenziali interazioni farmacologiche si deduce che il BMS-663068 può essere associato in tutta sicurezza a darunavir e/o etravirina, senza bisogno di rivedere il dosaggio. Questi farmaci sono molto utilizzati dai pazienti con fallimenti terapeutici alle spalle.
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Allegato: CROI 2015 - Quarto Bollettino
La traduzione dei bollettini è a cura di LILA Onlus, con il sostegno del Circolo Aziendale GD.