LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXIII Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2016, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 22 al 25 febbraio 2016.
PRIMO BOLLETTINO
Anello vaginale anti-HIV, l'efficacia preventiva risulta limitata
Secondo due studi presentati alla Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche (CROI), l'anello vaginale impregnato con un farmaco anti-HIV sarebbe solo limitatamente efficace nella prevenzione dell'infezione da HIV nelle donne.
Complessivamente, il rischio di infezione nelle donne che hanno fatto uso dell'anello si è abbassato solo del 30% circa: un risultato deludente.
L'efficacia dell'anello, tuttavia, risulta variare in base all'età. Se l'impatto dell'intervento è stato praticamente nullo nelle donne tra i 18 e i 21 anni, infatti, il rischio di infezione è invece diminuito di due terzi in quelle dai 25 anni in su.
Gli studiosi stanno ora cercando di comprendere a cosa sono dovuti questi risultati e quali implicazioni possono avere per lo sviluppo e l'impiego futuro di questo strumento preventivo.
Nei due studi, denominati ASPIRE e Ring, sono state complessivamente arruolate circa 4500 donne HIV-negative nell'Africa Sub-sahariana. Entrambi avevano un disegno identico. A tutte le partecipanti è stato distribuito un anello in silicone da inserire nella vagina: metà ne hanno ricevuto uno contenente l'antiretrovirale dapivirina, l'altra metà un placebo.
Tra le partecipanti ad ASPIRE si sono verificate 168 nuove infezioni da HIV, di cui 71 nelle donne che usavano l'anello impregnato di dapivirina e 97 in quelle che invece avevano ricevuto il placebo. L'efficacia preventiva dello strumento è quindi pari soltanto al 27%, un risultato deludente per gli autori dello studio.
Un dato interessante resta la diversa efficacia dimostrata dall'intervento a seconda dell'età delle partecipanti: pari a zero nella fascia d'età compresa tra i 18 e i 21 anni, ma in progressivo aumento nelle fasce successive, fino a toccare il 61% nelle ultra-venticinquenni.
I primi risultati provenienti dallo studio Ring mostrano un'efficacia complessiva del 31% e lo stesso tipo di rapporto tra età ed efficacia.
Secondo gli studiosi, questi deludenti risultati potrebbero essere legati alla debolezza intrinseca come strumento preventivo di questi anelli, che secondo le stime sarebbero in grado di prevenire al massimo il 70% delle infezioni. Si può anche ipotizzare che la bassa efficacia sia imputabile a un uso incostante da parte delle partecipanti. Quanto all'efficacia zero riscontrata nel gruppo delle più giovani, invece, è possibile che sia dovuta alla maggiore vulnerabilità all'infezione da HIV in questa fascia d'età.
I ricercatori si dicono tuttavia ancora convinti che l'anello possa ancora dimostrarsi un promettente strumento preventivo, e sono in programma ulteriori studi in merito.
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Articolo relativo allo studio ASPIRE sul New England Journal of Medicine
Webcast della conferenza stampa di presentazione dei due studi sul sito ufficiale della Conferenza
Stati Uniti, forti disparità nel rischio di diagnosi HIV nel corso della vita
Negli Stati Uniti, il rischio di ricevere una diagnosi di HIV nel corso della vita è diminuito nello scorso decennio, ma varia considerevolmente da un sottogruppo di popolazione all'altro. Se si confermerà la tendenza attuale, ben il 50% dei maschi neri omo- e bisessuali rischia di contrarre l'infezione, prima o poi.
I dati, basati sui tassi di diagnosi e mortalità relativi al periodo 2009-13, provengono dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC), l'autorevole ente per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti. Complessivamente, il rischio di ricevere una diagnosi di positività all'HIV nel corso della vita è risultato di 1 su 99.
Tuttavia il rischio era considerevolmente più elevato nei neri, sia uomini (1 su 20) che donne (1 su 48), rispetto ad altri gruppi etnici, per esempio nei bianchi (1 su 132 per gli uomini, 1 su 880 per le donne). Sono stati riscontrati tassi più alti anche per ispanici e popolazioni indigene delle isole del Pacifico.
L'analisi ha confermato che i maschi che fanno sesso con maschi sono il gruppo più duramente colpito dall'epidemia di HIV: nel gruppo dei maschi omo- e bisessuali, infatti, il rischio di contrarre l'infezione sale a 1 su 2 tra i neri, 1 su 4 tra gli ispanici e 1 su 11 tra i bianchi.
Nel gruppo dei consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva, rischiano di contrarre il virus 1 su 36 uomini e 1 su 23 donne: in questo sottogruppo, dunque, il rischio risulta più elevato per le donne. Ma anche qui i tassi sono più alti per la popolazione nera.
Secondo i rappresentanti dei CDC, questo modo di presentare i dati può essere particolarmente efficace per sensibilizzare la popolazione sul rischio di contrarre l'HIV. Le disparità evidenziate sono inoltre allarmanti, ed è dunque necessario agire al più presto.
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Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
Webcast della presentazione sul sito ufficiale della Conferenza
Nuovi farmaci e strategie di trattamento
Una combinazione di due farmaci anti-HIV iniettabili a lunga durata d'azione ha dato prova di un'efficacia virologica paragonabile a quella della terapia antiretrovirale tradizionale, secondo quanto rivelano nuovi dati.
Il trattamento per l'HIV va assunto a vita, e la ricerca sta cercando di mettere a punto antiretrovirali a lunga durata d'azione che non richiedano l'assunzione quotidiana.
Per questo studio sono stati arruolati 309 pazienti che intraprendevano per la prima volta la terapia: a tutti è stato somministrato cabotegravir più abacavir/lamivudina.
I partecipanti che riuscivano ad abbattere la carica virale a livelli non rilevabili sono stati poi randomizzati per ricevere delle iniezioni di cabotegravir e rilpivirina ogni quattro/otto settimane, oppure per proseguire con il tradizionale regime giornaliero con assunzione per via orale.
A 32 settimane dalla randomizzazione, i tassi di soppressione virale hanno raggiunto il 94/95% nel braccio che riceveva le iniezioni, contro il 91% per chi invece aveva mantenuto la terapia orale.
L'effetto collaterale più comune del nuovo trattamento è risultato una reazione locale nel sito di iniezione; 19 pazienti hanno inoltre lamentato sintomi simil-influenzali. Tra i partecipanti che hanno ricevuto il preparato iniettabile è invece risultato maggiore il grado di soddisfazione per il nuovo trattamento (90%, contro il 70% nel gruppo che assumeva la terapia orale).
Il follow-up continuerà fino alla 96° settimana, ed è inoltre in programma un ampio studio di fase 3.
Le formulazioni iniettabili a base di anticorpi potrebbero rappresentare la nuova frontiera della prevenzione e del trattamento dell'HIV. Al CROI sono stati presentati studi che indagano l'impiego di terapie iniettabili a base di anticorpi nella profilassi pre-esposizione (PrEP) e come forma di trattamento. In questo ambito la ricerca sta muovendo i suoi primi passi e i risultati sono finora promettenti: tuttavia resta ancora molta strada da fare prima che la prevenzione e la terapia a base di anticorpi possa diventare una realtà.
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Resoconto completo dello studio sugli antiretrovirali iniettabili a lunga durata d'azione su aidsmap.com
Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
Webcast della presentazione sul sito ufficiale della Conferenza
Resoconto completo degli studi sulle formulazioni a base di anticorpi su aidsmap.com
Webcast della relativa presentazione sul sito ufficiale della Conferenza
Tenofovir e rischio di fratture ossee
Dai dati dell'ampio studio di coorte EuroSIDA emerge che il trattamento con tenofovir disoproxil fumarato (Viread) aumenterebbe il rischio di fratture ossee.
Sia l'infezione da HIV che il trattamento con certi farmaci antiretrovirali – tra cui il tenofovir (contenuto nel Truvada e in diverse altre formulazioni a dosaggio fisso come l'Atripla) – possa causare una diminuzione della densità minerale ossea, aumentando così il rischio di fratture. In effetti, anche uno studio caso-controllo condotto in Danimarca aveva confermato che l'HIV risultava associato a un rischio triplicato di fratture ossee. Ma il rapporto tra antiretrovirali e fratture restava oggetto di dibattito.
Per questo, i ricercatori di EuroSIDA hanno disegnato uno studio su un campione di circa 12.000 persone che hanno iniziato la terapia antiretrovirale dopo il 2004, raccogliendo dati sull'incidenza delle fratture e conducendo una serie di analisi per determinare i fattori di rischio, considerando anche l'impiego dei singoli antiretrovirali.
Nel corso dello studio si sono verificate 618 fratture (incidenza 7 per 1000 persone all'anno). I siti più comuni sono risultati braccia, gambe e costole. I fattori di rischio comprendevano età avanzata, un basso indice di massa corporea (BMI), il consumo di sostanze stupefacenti per via iniettiva, una bassa conta dei CD4 all'inizio del trattamento e la coinfezione con il virus dell'epatite C.
Effettivamente i tassi di frattura nei pazienti che erano stati trattati con tenofovir o che lo stavano assumendo al momento sono risultati più elevati in confronto a quelli che assumevano altri antiretrovirali. Anche tenuto conto degli altri fattori di rischio, aver precedentemente assunto il tenofovir aumentava il rischio di fratture del 40%; l'aumento risultava invece del 25% per coloro che stavano ancora assumendo il farmaco.
Non è invece emersa alcuna associazione tra rischio di fratture e assunzione prolungata di tenofovir, il che conferma precedenti osservazioni secondo cui la perdita di densità ossea avverrebbe per lo più nei primi tempi dall'inizio della terapia. Nessun altro antiretrovirale è risultato associato a un aumentato rischio di fratture ossee.
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Una singola dose di acido zoledronico migliora la densità ossea
Un piccolo studio condotto negli Stati Uniti ha mostrato che una singola somministrazione di acido zoledronico può limitare la perdita di densità ossea durante il primo anno di terapia antiretrovirale.
L'acido zoledronico è una sostanza autorizzata per il trattamento del cancro alle ossa e dell'osteoporosi in pazienti con aumentato rischio di fratture, somministrata per infusione una volta all'anno. Il farmaco rallenta la perdita di calcio dalle ossa, riducendo così il rischio di fratture.
La perdita di massa ossea associata all'assunzione di antiretrovirali si verifica per lo più durante il primo anno di trattamento. I ricercatori hanno perciò voluto verificare se il trattamento con acido zoledronico a inizio terapia fosse in grado di limitare la perdita di densità ossea durante le prime 48 settimane di trattamento antiretrovirale.
Per lo studio sono stati arruolati 63 pazienti: a tutti è stato somministrato atazanavir con tenofovir/emtricitabina (i principi contenuti nel Truvada), e poi sono stati randomizzati per ricevere l'acido zoledronico oppure un placebo, monitorando a intervalli regolari il turnover osseo e la densità.
Il trattamento con acido zoledronico non ha tardato a mostrare i suoi benefici: già alla 12° settimana il rischio di perdita ossea risultava ridotto del 74% e alla 48° ancora del 56%.
I pazienti che hanno assunto l'acido zoledronico hanno mostrato un aumento di densità ossea in siti particolarmente suscettibili alle fratture.
Di contro, nel braccio che ha ricevuto il placebo è stata osservata una diminuzione della massa ossea. Il trattamento non è risultato associato a effetti collaterali gravi, né ha avuto alcun tipo di impatto sull'efficacia della terapia antiretrovirale.
Gli autori dello studio auspicano dunque che vengano condotti studi più ampi a conferma dei loro risultati.
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Perdita di densità ossea e PrEP
La perdita di densità minerale ossea che si verifica durante la profilassi pre-esposizione (PrEP) viene recuperata nell'arco di sei mesi dopo l'interruzione del trattamento, stando ai risultati di un nuovo studio.
I ricercatori di un ampio studio denominato iPrEx hanno monitorato la densità minerale ossea di circa 500 pazienti uomini che hanno assunto una PrEP.
Il tenofovir è l'antiretrovirale più associato alla perdita di massa ossea, specialmente nel corso del primo anno di terapia. Alcuni ricercatori temono anche che una perdita di densità ossea associata al tenofovir nella prima età adulta possa aumentare il rischio di gravi problemi all'apparato scheletrico più avanti negli anni.
I partecipanti allo studio hanno assunto la PrEP o un placebo per 1,2 anni in media, e durante questo lasso di tempo si sono sottoposti a intervalli regolari all'esame di densitometria ossea con metodica DEXA; hanno poi continuato il monitoraggio per un altro anno e mezzo dopo aver interrotto l'assunzione della PrEP o del placebo.
Nel corso del trattamento, nei partecipanti che presentavano livelli ematici di tenofovir sufficienti a prevenire l'infezione da HIV si sono osservate diminuzioni di massa ossea nell'anca (1%) e nella colonna vertebrale (1,8%). A sei mesi dall'interruzione del trattamento, la densità ossea nella colonna vertebrale era tornata a livelli paragonabili a quella dei pazienti del gruppo che aveva assunto il placebo. Per la perdita di massa ossea nell'anca i tempi di recupero sono stati più lunghi, ma a 18 mesi dall'interruzione del trattamento si osservavano comunque livelli paragonabili a quelli del gruppo del placebo. Il recupero è risultato particolarmente veloce nei pazienti al di sotto dei 25 anni.
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Diminuisce la trasmissione materno fetale in Malawi grazie all'Opzione B+
I dati relativi alla trasmissione materno-fetale dell'infezione da HIV in Malawi presentati alla Conferenza mostrano i progressi straordinari compiuti nonostante la limitatezza delle risorse in uno dei più poveri paesi al mondo.
In un campione di 2641 madri HIV-positive con bambini di età compresa tra le 4 e le 12 settimane la copertura della terapia antiretrovirale (ART) durante la gravidanza è stata eccezionalmente alta (94,5%). Il tasso complessivo di trasmissione del virus da madre a figlio si è attestato sul 4,1%, ma con significative differenze in base a quando era stata iniziata la terapia: 1,4% nelle donne che l'avevano iniziata prima di restare incinte; 4,1% in quelle che la iniziavano nel primo o secondo trimestre di gravidanza; 4,3% in quelle che la iniziavano invece nel terzo trimestre; 13,3% in quelle che la iniziavano solo dopo il parto; e 20,3% in quelle che non l'assumevano affatto.
Il tasso di trasmissione dell'1,4% nelle donne che avevano già iniziato ad assumere antiretrovirali prima di restare incinte (meno della metà del campione analizzato) è un risultato all'altezza di quelli osservati nei paesi sviluppati. L'Opzione B+ incoraggia le donne a continuare ad assumere la ART anche dopo il parto, per proteggere la salute della madre e di eventuali altri figli in caso di altre gravidanze.
I dati presentati riguardano bambini dalle 4 alle 12 settimane di età, quindi testimoniano soltanto eventuali eventi di trasmissione avvenuti a poca distanza dalla nascita. Starà al follow-up verificare se l'intervento avrà la stessa efficacia nel prevenire la trasmissione durante l'allattamento e se si riuscirà a mantenere in cura queste donne nel lungo termine.
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Trattamento precoce e rischio di malattia cardiovascolare
Iniziare la terapia antiretrovirale (ART) con una più elevata conta dei CD4 non ha alcun significativo impatto su un importante segnale d'allarme precoce per le patologie cardiovascolari.
Numerosi studi hanno dimostrato che l'infezione da HIV può aumentare il rischio di malattia cardiovascolare, ma non è ancora chiaro se tale rischio diminuisca quando viene iniziata tempestivamente la terapia antiretrovirale.
Lo studio START si proponeva proprio di stabilire quale fosse il momento migliore per iniziare la ART – se precocemente, quando la conta dei CD4 non fosse ancora scesa sotto 500, oppure soltanto quando la conta fosse scesa sotto 350.
Un sotto-studio di START si è occupato di monitorare l'elasticità della parete arteriosa, che – quando viene meno – rappresenta un importante segnale d'allarme per i problemi cardiovascolari: lo scopo era verificare se la terapia precoce portasse benefici in termini di rischio cardiovascolare.
Lo studio ha preso in considerazione in totale 322 pazienti, e il follow-up è proseguito per 36 mesi. In nessuno dei due gruppi sono state rilevate significative alterazioni nell'elasticità della parete arteriosa.
"Se la ART porta effettivamente dei benefici sotto il profilo del rischio di malattia cardiovascolare, dobbiamo concludere che sia coinvolto un meccanismo biologico che non si riflette nell'elasticità arteriosa", ha commentato Jason Baker dell'University of Minnesota, presentando i risultati dello studio.
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Allegato: CROI 2016 - Primo Bollettino