CROI 2018

CROI 2018 - Quarto Bollettino

CROI 2018LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione conNAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2018, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 4 al 7 marzo 2018.

 

 

 


QUARTO BOLLETTINO

Rarissimi i casi di fallimento della PrEP e farmacoresistenze
Un altro caso di infezione con HIV in un individuo che assumeva costantemente i farmaci per la profilassi pre-esposizione (PrEP) è stato segnalato alla 25° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2018) tenutasi la scorsa settimana a Boston, Stati Uniti.
È tuttavia difficile parlare con assoluta certezza di fallimento della PrEP, dato che il paziente non è stato sottoposto a monitoraggio e non aveva fatto il test dell’HIV nel periodo in cui ha accusato sintomi che potevano essere ricondotti alla sieroconversione.
Sono estremamente rari i casi di persone che hanno contratto un’infezione da HIV mentre assumevano la PrEP. Nel 2016 sono stati segnalati due pazienti che hanno contratto un ceppo virale farmacoresistente nonostante l’assunzione dei farmaci preventivi, uno a Toronto e uno a New York. C’è anche un terzo caso, registrato ad Amsterdam nel 2017, anche se qui il ceppo non era farmacoresistente.
In questo caso, mancando i dati sul monitoraggio, è impossibile stabilire se il paziente ha contratto un ceppo resistente a tenofovir ed emtricitabina, i due principi attivi impiegati nella PrEP, oppure se ha sviluppato una resistenza in un secondo momento, avendo continuato ad i farmaci per un mese dopo l’insorgenza di quelli che si sospetta siano sintomi di un’infezione acuta da HIV.
Un ulteriore studio presentato alla Conferenza ha indagato con quale probabilità degli individui con carica virale rilevabile trasmettevano un ceppo del virus HIV resistente a entrambi i farmaci impiegati nella PrEP. Gli autori hanno rilevato che a King County, la contea dove si trova Seattle, la percentuale della popolazione HIV-positiva con una carica virale superiore alle 10.000 copie/ml e alti livelli di resistenza a tenofovir ed emtricitabina non superava lo 0,3%.
Tuttavia, una percentuale ancora più bassa di persone con diagnosi recente (solo tre casi in dieci anni, ovvero uno su 606 individui a cui è stata diagnosticata l’infezione) presentavano una farmacoresistenza primaria, ossia avevano contratto un ceppo virale già resistente a tenofovir ed emtricitabina. Questo dato probabilmente rappresenta la frequenza massima di persone che potrebbero infettarsi con un ceppo del virus HIV farmacoresistente nonostante assumano la PrEP.
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Another likely case of PrEP 'breakthrough' infection reported, il resoconto completo del primo studio su aidsmap.com 
How much 'PrEP-resistant' HIV is out there?, il resoconto completo del secondo studio su aidsmap.com 

 

Test HIV fai-da-te in Sudafrica e Birmania
L’offerta del test per l’autodiagnosi dell’HIV (il cosiddetto test-fai-da-te) è un’opzione non solo percorribile ma anche ben accetta da uomini che fanno sesso con uomini e donne transgender in Birmania e uomini che fanno sesso con uomini in Sudafrica: è quanto emerge da due studi presentati la settimana scorsa a CROI.
Questo tipo di test garantisce un livello di riservatezza e di privacy, per quanto riguarda sia lo stato sierologico che il comportamento sessuale, che potrebbe rappresentare un particolare vantaggio per i gruppi più stigmatizzati. Esso rappresenta dunque uno strumento potenzialmente molto utile per espandere l’accesso al test HIV in generale e far aumentare la frequenza con cui le persone lo effettuano. Non manca tuttavia chi esprime preoccupazioni in merito, da un lato perché chi si fa l’autodiagnosi non usufruisce poi del counselling che è generalmente offerto insieme al test HIV standard e dall’altro perché c’è la possibilità che chi risulta positivo a questo tipo di test non sia poi debitamente introdotto nel percorso di cura.
Nello studio birmano sono stati reclutati 577 tra uomini che fanno sesso con uomini e donne transgender, che sono stati randomizzati per eseguire il test fai-da-te con il kit Oraquick oppure per eseguire il test standard e ricevere un servizio di counselling presso un’associazione attiva sul territorio. Entrambi i metodi sono risultati più che accettabili, e la maggior parte dei partecipanti a entrambi i bracci dello studio hanno dichiarato che in futuro avrebbero preferito fare il test da soli a casa. Quelli che appartenevano al braccio del test fai-da-te avevano più probabilità di presentarsi al secondo incontro (54% contro 46%) e in questo stesso braccio sono state effettuate più nuove diagnosi (28 contro 16).
Lo studio sudafricano, invece, aveva l’obiettivo di verificare l’accettabilità del test fai-da-te orale o con puntura sul polpastrello distribuendo appositi kit a un campione di uomini che fanno sesso con uomini. A ognuno dei partecipanti sono stati inoltre dati cinque kit da distribuire a familiari e amici, con lo scopo di valutare quante persone si riusciva a raggiungere.
La stragrande maggioranza dei partecipanti (il 91%) ha usato il kit. Gran parte di loro hanno effettuato il test da soli, ma qualcuno anche in presenza di altre persone – a volte facendolo insieme a un amico, un familiare, oppure al partner. Questo porta a pensare che l’offerta dei test per l’autodiagnosi possa essere anche un modo per aprire il discorso sul test e il trattamento dell’HIV – un certo numero di partecipanti ha infatti riferito agli autori dello studio di aver intavolato con più facilità il dialogo con il partner su questi argomenti. I 127 partecipanti hanno distribuito il kit a 376 amici, 217 familiari e 135 partner sessuali.
La conclusione degli autori è che il test per l’autodiagnosi rappresenti un’opzione percorribile e ben accetta per gli uomini che fanno sesso con uomini in Sudafrica, e che la distribuzione attraverso reti tra pari sia un buon metodo per raggiungere le persone ad alto rischio di esposizione al virus. Con il test fai-da-te aumenta infatti la frequenza di esecuzione del test per ogni individuo, che più facilmente coinvolge il partner: questo può potenzialmente ridurre le diagnosi tardive e agevolare l’accesso alle terapie per l’HIV.
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Resoconto completo su aidsmap.com 
Poster di presentazione dello studio birmano sul sito ufficiale della Conferenza (PDF) 
Webcast dell’intervento relativo allo studio sudafricano sul sito ufficiale della Conferenza 

 

Enormi passi avanti in Lesotho verso l’obiettivo 90-90-90
Malgrado sia un paese con alta prevalenza HIV (oltre il 25%), il Lesotho sta facendo degli enormi passi avanti verso il raggiungimento dell’obiettivo 90-90-90 di UNAIDS: secondo un’indagine svolta presso famiglie locali, tra gli adulti risultati positivi al test HIV il 77% sarebbe già stato al corrente del proprio stato sierologico.
Per raggiungere l’obiettivo 90-90-90 stabilito da UNAIDS per il 2020 occorre che sia diagnosticato il 90% delle infezioni stimate, che assuma la terapia il 90% delle persone con una diagnosi di HIV e che raggiunga la soppressione virale il 90% delle persone in terapia. Questo consentirebbe di ottenere l’abbattimento della carica virale a livelli non rilevabili nel 73% di tutte le persone con HIV, riducendo così in maniera significativa le malattie e i decessi HIV-correlati, oltre che le nuove infezioni.
Il Lesotho ha la seconda prevalenza HIV più elevata al mondo. L’HIV è la principale causa di morte nel paese, e questo incide molto sull’aspettativa di vita dei suoi abitanti – che è la più bassa di 195 paesi. In risposta, il Lesotho è stato il primo paese dell’Africa sub-sahariana a implementare l’approccio “test-and-treat” nel 2016.
Nell’ambito del programma LePHIA (Lesotho population-based HIV impact assessment) sono stati testati 11.682 adulti di quasi 11.000 famiglie, scelti come campione rappresentativo a livello nazionale.
La prevalenza HIV totale è risultata del 25,6% (il che equivale, secondo le stime, a 306.000 individui con infezione da HIV). Particolarmente colpite sono risultate le donne, con una prevalenza del 30,4% contro il 20,8% degli uomini.
Rispetto all’obiettivo 90-90-90, le donne sono risultate più avanti degli uomini. Tra gli uomini con HIV, infatti, il 71% aveva già ricevuto la diagnosi, l’89,4% di quelli con infezione diagnosticata era in trattamento e l’88,4% di quelli in trattamento avevano raggiunto la soppressione virale. Gli stessi dati relativi alle donne sono invece risultati rispettivamente l’81,5%, il 90,6% e l’88,2%.
Le persone al di sotto del 25 anni, a prescindere dal sesso, avevano una probabilità notevolmente più alta di non essere a conoscenza del proprio stato sierologico. Lo stesso dicasi anche per gli uomini che avevano lavorato la settimana precedente: questo è un segnale che negli sforzi per raggiungere i giovani bisognerebbe prevedere di offrire il test in posti vicini ai luoghi di lavoro e al di fuori dell’orario lavorativo. Occorre inoltre che sia data attenzione ai lavoratori migranti.
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Migliore soppressione virale per gli ex detenuti con il naltrexone a rilascio prolungato
Nei detenuti trattati con terapia antiretrovirale (ART) sono stati osservati buoni tassi di soppressione virale durante il periodo di detenzione, ma svariati studi hanno evidenziato come, dopo la scarcerazione, il controllo virologico viene rapidamente meno. Uno studio ha rilevato come la percentuale di individui con carica virale non rilevabile scendeva dal 59% ad appena il 18% dopo soli tre mesi dall’uscita dal carcere. Tali perdite di controllo virologico sono spesso associate a una pregressa dipendenza da oppioidi o alcol.
Il naltrexone è un antagonista degli oppioidi che attenua la voglia di bere alcol e contrasta gli effetti delle sostanze oppiacee. Il trattamento con naltrexone a rilascio prolungato ha mostrato di ridurre i tassi di ricaduta nelle persone con precedenti di dipendenza da oppioidi o alcol.
Due team di ricercatori hanno condotto degli studi per verificare se l’assunzione di questo farmaco poteva dare dei benefici in ex-detenuti HIV-positivi trattati con ART che avevano una dipendenza da alcol oppure oppioidi dopo il rilascio dal carcere. Si tratta di due studi randomizzati controllati con placebo: NEW HOPE per gli ex-detenuti HIV-positivi con dipendenza da oppioidi, e INSPIRE per quelli con dipendenza da alcol.
In entrambi gli studi, i partecipanti sono stati randomizzati per ricevere una volta al mese un’iniezione di naltrexone a rilascio prolungato oppure di un placebo. Outcome primari degli studi erano il raggiungimento o il mantenimento di una carica virale HIV non rilevabile (inferiore alle 50 copie/ml).
Lo studio NEW HOPE, quello con ex-detenuti con un passato di dipendenza da oppioidi, ha rilevato che il trattamento con naltrexone a rilascio prolungato risultava associato a un aumento di quasi tre volte delle probabilità che i partecipanti fossero in soppressione virale sei mesi dopo la scarcerazione. Lo studio INSPIRE, quello con ex-detenuti con un passato da alcolisti, ha invece rilevato che questa probabilità aumentava addirittura di quattro volte.
In nessuno dei due studi sono stati registrati casi di gravi eventi avversi.
“Per raggiungere l’obiettivo 90-90-90 negli ex-detenuti con problemi di dipendenza da alcol o sostanze oppiacee, occorre dare importanza alle terapie farmacologiche per il trattamento di tali dipendenze, che vanno integrate alle terapie antiretrovirali”, hanno concluso i ricercatori. “Per il futuro, è auspicabile che siano condotti altri studi per verificare anche in altri contesti l’efficacia del naltrexone a rilascio prolungato per raggiungere la soppressione virale nei pazienti HIV-positivi e per la prevenzione.”
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Trattamento molto precoce dell’HIV nei più piccoli
Il trattamento molto precoce dell’HIV nei bambini anche piccolissimi è sia fattibile che sicuro, e riduce notevolmente i reservoir di cellule infette: è quanto emerge da due studi condotti in Botswana e Thailandia. Questi risultati fanno sperare che i bambini a cui viene diagnosticata un’infezione da HIV subito dopo il parto e che ricevono tempestivamente il trattamento abbiano maggiori possibilità di riuscire a tenere a bada il virus se in futuro la ricerca riuscirà a individuare modi per mantenere la soppressione virale per periodi di tempo prolungati senza l’ausilio dei farmaci – ossia quella che viene spesso chiamata ‘cura funzionale’.
Questo tipo di strategia terapeutica aveva destato molto interesse da parte della comunità scientifica a seguito del caso della cosiddetta “bambina del Mississippi”. Nel 2013 dei ricercatori statunitensi riferirono sul caso di una bambina a cui erano stati somministrati antiretrovirali nell’arco delle 30 ore successive alla nascita e che, a oltre un anno di distanza, risultava ancora in grado di tenere sotto controllo l’HIV senza assumere farmaci. L’ipotesi era che l’assunzione così precoce del trattamento avesse ridotto drasticamente il numero di cellule infette (il reservoir virale) nell’organismo della piccola.
Il più delle volte, la presenza di HIV DNA nelle cellule finisce per riattivare la replicazione virale, e si osservano rapidi rebound della carica virale quando si sospendono le terapie. Nel caso del Mississippi, questo rapido rebound si è effettivamente verificato in maniera improvvisa quando la bambina aveva tre anni e nove mesi di età, dopo oltre due anni senza farmaci.
Da quando è stato segnalato questo caso, numerosi sono stati gli studi che hanno indagato la fattibilità del trattamento molto precoce e i suoi effetti sul reservoir HIV. L’obiettivo di questi studi è anche determinare con che frequenza e con che percentuali di successo un inizio così tempestivo delle cure possa inibire la formazione di reservoir di cellule infette.
Lo studio denominato Early Infant Treatment Study, condotto in Botswana, ha rilevato che nei bambini a cui veniva somministrato il trattamento nel giro di pochi giorni dalla nascita la quantità di HIV DNA integrata nelle cellule risultava bassissima o nulla, e dopo oltre sei mesi dal trattamento non venivano prodotte nuove cellule virali. I bambini che presentavano una carica virale non rilevabile a 84 settimane avevano altissime probabilità di avere anche un HIV DNA non rilevabile.
Il gruppo di ricercatori HIV-NAT, in Thailandia, ha invece indagato il rapporto tra età dei piccoli pazienti al momento della prima somministrazione di antiretrovirali e dimensioni dei reservoir HIV in due coorti di bambini che hanno iniziato il trattamento prima dei sei mesi di vita. Dai risultati è emerso che i reservoir di cellule infette effettivamente si riducevano durante il primo anno di trattamento, ma successivamente restavano stabili. Tuttavia, gli studiosi hanno anche rilevato che in circa metà dei piccoli partecipanti allo studio le cellule infette non riuscivano a produrre nuovo materiale virale a un anno e oltre da quando avevano ricevuto il trattamento: questo fa pensare che l’HIV DNA in questi bambini sia difettoso.
Se questi bambini, e altri come loro, in futuro riusciranno o meno a tenere a bada il virus senza l’ausilio di farmaci resta da verificare con studi appositamente disegnati. Il timore è che l’interruzione delle terapie conduca a un aumento irreversibile del reservoir virale, il che potrebbe pregiudicare la possibilità che in futuro possano trarre beneficio da eventuali scoperte riguardo il controllo virologico senza farmaci.
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Webcast dell’intervento relativo allo studio thailandese sul sito ufficiale della Conferenza 
Watch dell’intervento relativo allo studio botswanese sul sito ufficiale della Conferenza 

 

Profilassi con isoniazide in donne HIV-positive in gravidanza: i rischi superano i benefici?
La somministrazione di profilassi con isoniazide (IPT) durante la gravidanza e l’allattamento a donne HIV-positive in trattamento con terapia antiretrovirale (ART) ha portato a un tasso inaspettatamente alto di gravi eventi avversi potenzialmente imputabili all’isoniazide, senza peraltro che ci fosse una significativa diminuzione dei casi di tubercolosi (TB), si è appreso la scorsa settimana alla Conferenza.
Lo stesso studio da cui sono emersi questi dati ha anche rilevato che i casi di outcome avverso della gravidanza erano molto più numerosi tra le donne che avevano ricevuto l’IPT già mentre erano incinte, in confronto a quelle che invece iniziavano la profilassi solo dopo il parto.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla base di solide evidenze cliniche, raccomanda per le persone con HIV la somministrazione di IPT più ART. Un ciclo di IPT di sei mesi (il minimo raccomandato) riduce infatti il rischio di contrarre la tubercolosi attiva. Tuttavia, per le donne in gravidanza e nel post-parto gli elementi comprovanti l’opportunità di questa terapia sono poco convincenti. Per di più, ci sono dati retrospettivi che mostrano un’associazione tra assunzione di isoniazide e aumento del danno epatico nelle donne in gravidanza e nel post-parto.
In alcune aree endemiche per la TB di Africa, Asia e Haiti è stato condotto uno studio randomizzato, denominato TB APPRISE, che aveva l’obiettivo di mettere a confronto in termini di sicurezza ed efficacia gli outcome che si ottenevano iniziando l’IPT durante la gravidanza o rimandandola a 12 settimane dopo il parto. In entrambi i bracci dello studio si sono verificati gravi eventi avversi, e con grande frequenza; nel braccio di pazienti che assumevano l’IPT già in gravidanza erano inoltre più frequenti i casi di outcome avverso della gravidanza, per esempio la morte fetale. Quanto alle nuove infezioni da TB in madri e neonati, non si è registrata una diminuzione significativa nel braccio che ha iniziato subito il trattamento profilattico, anche se l’incidenza è risultata generalmente bassa in entrambi.
Sono dati che contrastano con le attuali linee guida dell’OMS. Il dott. James McIntyre dell’Anova Health Institute, Sudafrica, durante una conferenza stampa ha dato credito alla raccomandazione avanzata dagli autori dello studio che le linee guida vengano riviste alla luce di queste risultanze, soppesando bene rischi e benefici dell’inizio della profilassi con isoniazide nelle donne HIV-positive in gravidanza.
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L’efficacia dei trattamenti di terza linea nei contesti a risorse limitate
Le terapie antiretrovirali di terza linea diventeranno sempre più indispensabili nei contesti a risorse limitate, ma resta da chiarire quale sia il modo migliore di gestire il fallimento terapeutico di un regime di seconda linea. Lo studio ACTG A5288 presentato a CROI 2018 ha mostrato che effettuando il test per le resistenze e impiegando nuovi farmaci si possa ottenere la soppressione virale in un’elevata percentuale di pazienti.
ACTG A5288 era un trial in aperto in cui venivano messe a confronto diverse strategie terapeutiche in pazienti con carica virale uguale o superiore alle 1000 copie/ml dopo almeno 24 settimane di terapia antiretrovirale di seconda linea con un regime in cui era compreso un inibitore della proteasi. L’obiettivo dello studio era di valutare l’impiego di nuovi antiretrovirali e di strumenti di nuova generazione come la genotipizzazione virale per guidare la scelta del regime di trattamento di terza linea più adeguato e consentire a un numero maggiore di pazienti di raggiungere la soppressione virale. Un gruppo di partecipanti ha continuato ad assumere il regime di seconda linea, non presentando farmacoresistenze o presentandone solo di trascurabili; le attuali linee guida raccomandano in questi casi di rafforzare il sostegno all’aderenza per ottenere la ri-soppressione virale. Un altro gruppo invece ha effettuato lo switch terapeutico a un nuovo regime, in base al profilo di resistenza.
Da questo studio non randomizzato è emerso che, mentre i partecipanti che proseguivano il trattamento di seconda linea alla 48° settimana presentavano un basso tasso di soppressione virale (44%) e avevano sviluppato nuove farmacoresistenze, quelli che passavano a regimi contenenti due o tre nuovi principi attivi (almeno due tra darunavir/ritonavir, etravirina o raltegravir) avevano molte più probabilità di raggiungere la soppressione virale e meno di sviluppare altre resistenze. Quasi il 90% dei pazienti che hanno assunto almeno due dei nuovi farmaci riusciva a ottenere la soppressione virale.
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La versione in formato pdf di questo bollettino è disponibile cliccando qui.

CROI 2018 - Terzo Bollettino

CROI 2018LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2018, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 4 al 7 marzo 2018.

 

 

 


TERZO BOLLETTINO

Studi clinici in aperto mostrano una maggiore aderenza ed efficacia degli anelli vaginali
Dai risultati intermedi di due studi paralleli in aperto sugli anelli vaginali di dapivirina, presentati mercoledì alla 25° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2018), è emerso che le donne hanno utilizzato l’anello in maniera più continuativa rispetto a studi randomizzati condotti in precedenza. L’uso dell’anello si è rivelato uno strumento più efficace nella prevenzione delle infezioni da HIV, impedendo più della metà delle infezioni che altrimenti si sarebbero verificate.
Questo anello, simile ai classici metodi contraccettivi, è pensato per essere inserito nella vagina per un mese e può essere autonomamente inserito o rimosso.
I due studi in oggetto, HOPE (MTN 025) e DREAM (IPM 032), non sono altro che estensioni in aperto dei due studi randomizzati controllati con placebo noti come ASPIRE (MTN 020) e Ring Study (IPM 027). Questi ultimi avevano riportato un’efficacia rispettivamente del 27% e del 31%.
I due studi in aperto sono molto simili e hanno coinvolto le donne, provenienti dall’Africa sud-orientale, che avevano già preso parte ai due studi randomizzati precedenti. Le partecipanti sono state messe a conoscenza di ricevere un prodotto attivo che si è dimostrato essere efficace e sicuro
Allo studio HOPE hanno preso parte 2017 soggetti, età media 31 anni, mentre nello studio DREAM erano 900, età media 29. Gran parte del campione presentava infezioni sessualmente trasmissibili all’inizio dello studio, rispettivamente il 16% e il 18%. Il processo di reclutamento si è svolto regolarmente e tassi di abbandono soddisfacenti.
In confronto agli studi randomizzati, ci sono stati livelli più alti di aderenza, stimata misurando la quantità di farmaco rimasta nell’anello dopo l’uso. Secondo i risultati, l’89.5% e il 96% delle donne che hanno partecipato a HOPE e DREAM hanno usato l’anello almeno in parte nel mese di studio, rispetto ai risultati precedenti degli studi randomizzati, rispettivamente pari al 77% e 83%.
Gli studi in aperto non prevedono bracci di controllo con placebo (gruppo a cui non viene somministrato il farmaco) e pertanto l’efficacia non può essere misurata direttamente; i ricercatori ritengono, comunque, che l’incidenza HIV nelle due coorti si attesti rispettivamente intorno al 4.1% e 3.9%. Nei due studi i valori erano pari a 1.9% e 1.8%, ciascuno corrispondente ad un’efficacia del 54%.
Jared Baeten del Microbicide Trials Network ha fatto un confronto con la profilassi pre-esposizione orale: l’efficacia emersa dallo studio iPrEx sulla PrEP era solo del 44%, mentre nell’estensione in aperto dello studio aveva raggiunto il 50%, arrivando poi al 100% in soggetti che assumevano quattro o più dosi a settimana. Erano necessarie ulteriori ricerche e progetti dimostrativi per provare l’altissima efficacia della PrEP in casi di alta aderenza.
Gli studi sugli anelli vaginali sono praticamente alla seconda fase di questo processo, ha affermato Baeten. I risultati finali saranno disponibili l’anno prossimo e suddivideranno i partecipanti in base ai tassi di aderenza ed efficacia.
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Webcast dell’intervento in cui è stato presentato lo studio HOPE sul sito ufficiale della Conferenza 
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Dalla diagnosi al trattamento: a San Francisco bastano in media sei giorni.
A San Francisco il tempo che passa dalla diagnosi di HIV al trattamento è diminuito incredibilmente dal 2013 al 2016, passando da 35 a soli 6 giorni, mentre dal momento della diagnosi al raggiungimento di una carica virale sotto le 200 copie/ml si è passasti, nello stesso periodo, da 134 giorni a 61.
Nel 2015 la città ha dato il via a RAPID, un protocollo mirato ad accelerare l’inizio della terapia, insieme a tante altre iniziative per eliminare le nuove infezioni da HIV. Lo scopo di RAPID è di far iniziare la terapia al paziente HIV+ dopo soli 5 giorni dalla diagnosi: a meno che non si tratti di un caso a rischio di sindrome infiammatoria da immunoricostituzione (IRIS), bisognerebbe iniziare la terapia già dalla prima visita, utilizzando i farmaci più potenti a disposizione, tranne gli antiretrovirali che richiedono esami di laboratorio (come ad esempio abacavir o inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa).
I pazienti recentemente diagnosticati vengono indirizzati alla clinica più appropriata dagli incaricati, in base alla copertura assicurativa e ai bisogni psicosociali dell’individuo. In caso di soggetti a basso reddito è disponibile il programma di copertura sanitaria Medicaid, parte fondamentale del progetto: il 39% dei pazienti inizia la terapia antiretrovirale nelle cosiddette cliniche “safety net” mentre il 60% si rivolge a cliniche che accettano pazienti Medicaid o senza assicurazione sanitaria.
Nel 2016 non è stata registrata nessuna differenza demografica tra chi ha iniziato il trattamento e chi no: il tempo dalla diagnosi alla soppressione della carica virale è diminuito significativamente per tutti i gruppi, in particolare per i senzatetto, coloro che provengono dall’Asia Pacifica e gli ispanici.
I risultati mostrano come una collaborazione multisettoriale sia la chiave per accorciare il tempo che passa tra la diagnosi di HIV alla soppressione virologica, dice il dottor Oliver Bacon del Department of Public Health di San Francisco, ma anche una sorveglianza continua e l’analisi dei vari casi sono cruciali per mappare il percorso verso il trattamento e individuare tutte le possibilità di miglioramento.
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Chi assume statine è meno a rischio di tumori
I soggetti che assumono statine contro il rischio di patologie cardiovascolari, siano questi HIV positivi o negativi, sono meno a rischio di contrarre un cancro, secondo una ricerca presentata ieri alla Conferenza.
Le statine, oltre ad essere usate per abbassare i livelli di grassi nel sangue e ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, riducono l’infiammazione e influenzano positivamente la proliferazione e l’attività delle cellule T, fattore che potrebbe favorire la risposta immunitaria contro i tumori. In realtà i risultati che correlano l’assunzione di statine ai tumori nella popolazione sono contraddittori, ma gli effetti potrebbero essere positivi in soggetti affetti da infezioni croniche come l’HIV che comportano una costanze attivazione immunologica e infiammazione.
Nello studio VACS (Veteran Aging Cohort Study) il dottor Roger Bedimo e il suo team del Veterans Affairs North Texas Health Care Center di Dallas hanno analizzato le correlazioni tra l’esposizione alle statine e il rischio di tumori, identificando 12.014 pazienti in regime di statine e non, un quinto dei quali risultava HIV positivo.
Nella fase di follow up di 5 anni, al 9.0% dei pazienti HIV positivi e al 7.1% di quelli HIV negativi è stato diagnosticato un tumore. In generale, lo studio ha evidenziato che l’esposizione alle statine corrisponde a un 39% di rischio in meno di contrarre la malattia. Dalla ricerca è emerso anche che l’effetto protettivo delle statine è più forte nei pazienti HIV+ rispetto agli altri (49% nel primo gruppo, contro una riduzione generale del 35% nel secondo).
L’effetto protettivo risulta apparentemente più forte nei tumori causati da infezioni virali, tra cui linfomi (causati dal virus di Epstein-Barr), tumori al fegato (epatite B e C), tumori della bocca (papilloma virus umano, HPV) e tumore dell’ano (HPV). Impatto limitato, invece, sul tumore alla prostata.
In generale, considerando tutte le possibili cause di decesso, tra i pazienti che assumono statine il rischio di mortalità è più basso del 45% rispetto a coloro che non le assumono.
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Efavirenz: possibli interferenze sull’efficacia dell’anello vaginale anticoncezionale
Il farmaco antiretrovirale efavirenz riduce significativamente i livelli di entrambi gli ormoni presenti nell’anello vaginale anticoncezioanle se usato dalle donne con HIV: è il risultato di una ricerca presentata mercoledì a CROI 2018. Era già noto che efavirenz andasse ad interferire con alcuni tipi di anticoncezionali, ma si ignoravano gli effetti sull’anello vagianle.
NuvaRing è un anello vaginale a rilascio graduale di etonogestrel (progestinico) e etinilestradiolo (estrogeno) e contiene la quantità di ormoni necessaria a garantire l’efficacia contraccettiva per un intero mese.
I ricercatori hanno misurato le concentrazioni di plasma di etonogestrel e etinilestradiolo all’inizio dell’utilizzo dell’anello vaginale e successivamente al giorno 7, 14 e 21. Allo studio hanno preso parte settantaquattro donne affette da HIV, divise in tre gruppi: nessun regime contro HIV, regime a base di efavirenz e regime a base di atazanavir/ritonavir.
I livelli di etonogestrel si sono abbassati del 76-79% nel gruppo che ha ricevuto efavirenz, mentre nel gruppo a regime atazanavir/ritonavir sono aumentati del 71-79%. I livelli di etinilestradiolo, invece, si sono abbassati del 53-57% nel primo gruppo e del 29-35% nel secondo.
La ricerca ha evidenziato come il trattamento combinato di atazanavir/ritonavir non abbia effetti rilevanti sull’efficacia dell’anello vaginale anticoncezionale.
Preoccupano di più, invece, i risultati legati a efavirenz: “Se fossi una donna che assume una terapia antiretrovirale a base efavirenz non sarei molto tranquilla sull’efficacia contraccettiva dell’anello vaginale”, ha detto la dottoressa Kimberly Scarsi, University of Nebraska Medical Center, durante il suo intervento alla Conferenza
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Donne transgender e cluster di trasmissione
Secondo uno studio filogenetico sulle infezioni da HIV di Los Angeles, le donne transgender sarebbero il gruppo più a rischio di essere in un cluster di casi geneticamente collegati: appartengono, quindi, ad un network ad alta incidenza di HIV.
Le donne eterosessuali cisgender sono il gruppo che meno probabilmente rientra in un cluster; invece, gli uomini eterosessuali cisgender hanno l’1.8 % di probabilità in più di farvi parte, gli uomini che fanno sesso con gli uomini (MSM) il 2.1% e le donne transgender il 2.3%.
Rispetto agli MSM, però, è la diagnosi ad essere molto meno probabile nelle donne transgender.
L’analisi dei cluster mette in luce il comportamento sessuale di un soggetto attraverso le informazioni sulle catene di infezione. Un cluster viene definito come un gruppo di due o più persone i cui virus sono talmente simili da dover avere sicuramente un’origine comune.
Lo studio mostra che le donne transgender hanno il 45% di probabilità in più di entrare in contatto con uomini eterosessuali cisgender rispetto a quanto non ci si aspetterebbe se il contatto fosse casuale, e il 450% di probabilità in più di entrare in contatto con altre donne transgender. Con gli MSM si parla invece di un 22% di probabilità in meno rispetto al contatto causale.
Da quanto emerge dallo studio, anche i partner delle donne transgender tendono molto a creare cluster, il che fa pensare alla presenza di una significativa parte di uomini cisgender - MSM o eterossessuali – che hanno relazioni occasionali o stabili con donne transgender.
Manon Ragonnet-Cronin dell’Università della California, San Diego, afferma che si potrebbero sfruttare i dati che emergono dall’analisi filogenetica per sensibilizzare i partner delle donne transgender sull’argomento e far sì che entrino in contatto con i test contro l’HIV, la profilassi pre-esposizione (PrEP) e l’invio alle cure.
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Ibalizumab e la sua efficacia contro le forme altamente resistenti di HIV
Ibalizumab, un anticorpo monoclonale a lunga durata che impedisce l’ingresso di HIV nelle cellule è attivo contro i ceppi virali che hanno sviluppato una resistenza contro molti altri antiretrovirali: è quanto si apprende da uno studio presentato a CROI 2018.
Durante la Conferenza, la FDA (Food and Drug Administration) ha annunciato l’approvazione di ibalizumab-uiyk, che sarà sul mercato come Trogarzo, destinato ai soggetti HIV positivi con poche terapie disponibili a causa di trattamenti duraturi pregressi o virus resistenti a più farmaci.
Ibalizumab non agisce attaccando direttamente il virus HIV, ma si lega ai recettori CD4 delle cellule T. L’anticorpo deve essere somministrato per via intravenosa ogni due settimane.
Ibalizumab è il primo agente biologico ad essere approvato per il trattamento di HIV, non necessita una somministrazione quotidiana e si tratta della prima terapia anti-HIV ad avere un nuovo meccanismo di funzionamento che sarà introdotta nel prossimo decennio.
Lo studio presentato a CROI ha mostrato risultati di un’analisi su isolati di virus in campioni ematici raccolti dai partecipanti ad un trial clinico a tre fasi: ibalizumab ha mostrato la stessa attività contro il virus di HIV sia che fosse sensibile sia che fosse resistente agli altri tipi di antiretroviali di tutti i gruppi. È la conferma, quindi che ibalizumab è uno strumento cruciale alla lotta contro la farmacoresistenza di HIV.
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CROI 2018 - Secondo Bollettino

CROI 2018LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2018, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 4 al 7 marzo 2018.

 

 

 


SECONDO BOLLETTINO

Stati Uniti: PrEP sempre più diffusa, ma ne avrebbero bisogno in molti di più
Negli Stati Uniti è in costante aumento la diffusione della profilassi pre-esposizione (PrEP) come terapia preventiva contro l’infezione da HIV, ma a farvi ricorso è ancora solto una piccola percentuale di coloro che potrebbero trarne giovamento: è quanto si è appreso alla 25° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2018) in corso questa settimana a Boston. Afro-americani e ispanici, che pure rappresentano i due terzi delle persone che più beneficerebbero di questi farmaci, li assumono invece molto meno dei bianchi.
Da svariati anni Gilead Sciences, la casa farmaceutica che produce il Truvada, pubblica stime sul ricorso alla PrEP basate su indagini condotte nelle farmacie (attraverso cui si ritiene venga acquistato l’85% dei farmaci per la PrEP). In collaborazione con Patrick Sullivan della Emory University e AIDSVu, Gilead ha adesso presentato i dati raccolti, che potrebbero aiutare le autorità sanitarie, il personale medico e i rappresentanti delle associazioni attive sul territorio a comprendere meglio le ragioni della disparità di accesso alla PrEP e a intervenire per attenuarla.
I dati presentati provengono da 54.000 farmacie e una quantità di altri presidi medici, e prendono in considerazione anche farmaci pagati da programmi di assistenza sanitaria pubblica come Medicaid e altri, mentre non tengono conto di quelli distribuiti nell’ambito di studi dimostrativi, dai programmi di assistenza ai veterani e da altre organizzazioni sanitarie che possiedono un proprio circuito di farmacie, come Kaiser Permanente.
Nel corso del 2016 a fare ricorso alla PrEP sono state 77.120 persone, in netto aumento dalle 8768 del 2012. Ma questo numero complessivo cela notevoli disparità a livello demografico e geografico.
Per esempio, le donne rappresentano circa il 19% di tutte le nuove diagnosi di HIV, eppure sono solo il 7% del totale delle persone che assumono i farmaci preventivi; allo stesso modo, i giovani sotto i 25 anni sono il 21% delle nuove diagnosi e solo l’11% di coloro che fanno uso della PrEP.
E ancora, oltre la metà di tutte le nuove diagnosi si registra negli Stati del sud, dove risiede però soltanto il 30% delle persone che ricorrono alla PrEP. Rapportando i dati alle dimensioni della popolazione, risulta che a registrare i tassi più elevati di ricorso alla PrEP sono gli stati di New York, Massachusetts, Rhode Island, Washington e Illinois.
Tassi inferiori si rilevano invece negli Stati con una maggiore percentuale di persone al di sotto della soglia di povertà, con più cittadini privi di assicurazione sanitaria, e in quelli che hanno deciso di non espandere il programma Medicaid all’epoca della riforma sanitaria promossa dal presidente Obama.
I dati ricavabili dalle prescrizioni spesso non contengono informazioni sul profilo etnico di chi acquista i farmaci, ma secondo le stime dei Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC) soltanto l’1% degli afro-americani che sarebbero eleggibili per la PrEP vi fa effettivamente ricorso; ed è bassa anche la percentuale degli ispanici, 3%.
La differenza con la percentuale dei bianchi, 14%, non è abissale ma è comunque considerevole.
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L’espansione di programmi per trattamento e circoncisione dimezza le nuove infezioni
Si è dimezzato rispetto al 2011 il tasso di nuove infezioni da HIV in una comunità di pescatori dell’Uganda dove l’HIV era iperendemico a seguito dell’aumentato ricorso alla circoncisione maschile e alle terapie antiretrovirali, con il conseguente aumento della soppressione virale: sono i risultati di uno studio presentato martedì scorso alla Conferenza.
Gli autori hanno effettuato delle indagini ripetute nel tempo all’interno di una piccola comunità di pescatori dove incidenza e prevalenza di HIV erano altissime. Si tratta di una comunità che vive sulle sponde del lago Victoria, e che fa parte della coorte di Rakai. Sono state coinvolte in totale 5005 persone tra i 15 e i 49 anni, e l’arco di tempo considerato è compreso tra il 2011 e il 2017.
In questo periodo:

  • la percentuale di persone con HIV che assumeva una terapia antiretrovirale è salita dal 19% all’81%;
  • la percentuale di persone con HIV (comprese quelle con infezione non diagnosticata) in soppressione virale è salita dal 33% al 78%;
  • la percentuale dei maschi circoncisi è salita dal 39% al 63%.
  • non si sono osservati cambiamenti nel comportamento sessuale.

A seguito di questo, l’incidenza HIV complessiva si è più che dimezzata, passando dalle 3,97 per 100 persone-anni del 2011 alle 1,61 per 100 persone-anni del 2017: in percentuale, si tratta di una diminuzione del 58%. Non si sono osservate grandi differenze tra uomini e donne, e anche rispetto all’età la riduzione è stata considerevole in ogni fascia, ma soprattutto in quella compresa tra i 15 e i 24 anni.
La prevalenza HIV è invece calata dal 41 al 36%.
Il dott. Joseph Kagaayi del Rakai Health Sciences Program ha detto che il suo studio è tra i primi a dimostrare che la combinazione di varie misure preventive possa efficacemente ridurre l’incidenza HIV in una comunità iperendemica. “Questi risultati fanno pensare che un’espansione in tempi rapidi dei programmi di prevenzione dell’HIV e di offerta del trattamento possa avere un impatto notevole, a livello di popolazione, sull’incidenza HIV nei contesti ad alta prevalenza”, ha commentato lo studioso.
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Regime combinato con bictegravir in grado di mantener la soppressione virale dopo lo switch terapeutico
Da uno studio presentato a CROI 2018 è risultato che effettuando lo switch terapeutico a un regime monocompressa contenente l’inibitore dell’integrasi bictegravir le probabilità di mantenere irrilevabile la carica virale rimanevano le stesse che assumendo un regime farmacologico soppressivo a base di dolutegravir.
Il bictegravir è un inibitore dell'attività di strand transfer dell'integrasi, un farmaco di nuova generazione prodotto da Gilead Science. A febbraio, le autorità statunitensi hanno approvato Biktarvy, una nuova monocompressa da assumersi in una sola somministrazione giornaliera contenente bictegravir, emtricitabina e tenofovir alafenamide (TAF), la nuova formulazione del tenofovir con meno effetti collaterali a carico di reni e ossa. In Europa, il farmaco è attualmente al vaglio degli enti regolatori.
Precedenti studi condotti su pazienti che iniziavano per la prima volta le terapie antiretrovirali avevano dimostrato la non-inferiorità del bictegravir rispetto a regimi contenenti l’inibitore dell’integrasi dolutegravir, prodotto da ViiV Healthcare.
Lo studio presentato questa settimana alla Conferenza ne ha valutato invece l’efficacia in pazienti che effettuavano uno switch terapeutico. Eleggibili per il reclutamento erano individui che avevano ottenuto l’abbattimento della carica virale con un regime a base di dolutegravir, lamivudina e abacavir (i principi attivi contenuti nella monocompressa Triumeq).
In totale lo studio ha coinvolto 563 partecipanti provenienti da Europa, Nord America e Australia, in prevalenza maschi bianchi con una conta dei CD4 attorno alle 700 cellule/mm3. Sono stati reclutati solo individui con funzionalità renale buona o moderatamente buona (velocità di filtrazione glomerulare stimata – eGFR – superiore a 50 ml/min).
A 48 settimane si sono osservati alti tassi di soppressione virale in entrambi i bracci dello studio: 98,6% in quello del bictegravir e 95,0% in quello del dolutegravir. In nessuno dei partecipanti è stata osservata l’insorgenza di resistenze correlate all’assunzione del trattamento, per nessun farmaco.
Entrambi i regimi di trattamento si sono dimostrati generalmente sicuri e ben tollerati. Nel braccio del bictegravir hanno lamentato effetti collaterali causati dai farmaci (prevalentemente mal di testa) solo la metà dei partecipanti rispetto all’altro braccio, ma in quel gruppo l’eGFR è risultata lievemente aumentata, mentre è calata – sempre lievemente – nel braccio del dolutegravir.
Gli autori dello studio hanno dunque concluso che passare a un regime a base di bictegravir è efficace e sicuro quanto continuare la terapia con dolutegravir.
Quando è stato loro chiesto perché un paziente che si trova bene con il dolutegravir dovrebbe passare a Biktarvy, i ricercatori hanno spiegato che un regime contenente il tenofovir è preferibile per chi ha una coinfezione con epatite B, dato che questo principio attivo è efficace sia contro l’HIV che contro l’epatite B.
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Lesotho, successo della sperimentazione dell’inizio terapie lo stesso giorno della diagnosi
Da uno studio condotto nel Lesotho rurale è risultato che i pazienti erano ben disposti a iniziare ad assumere il trattamento antiretrovirale a casa lo stesso giorno della diagnosi; in questo modo, inoltre, sia l’aggancio alle cure che i tassi di soppressione virale erano migliori rispetto quelli ottenuti con la prassi tradizionale dell’invio alle strutture sanitarie.
L’aggancio alle cure dopo la diagnosi è un tasto dolente nei paesi dell’Africa sub-sahariana, come attesta una quantità di studi. Nell’ambito di programmi in cui veniva offerto il test HIV a domicilio era stato riscontrato che soltanto una persona su tre che risultava positiva al test si rivolgeva poi effettivamente ai centri sanitari per la presa in carico a seguito dell’invio: serviva un approccio più attivo.
Lo studio CASCADE è stato condotto in un distretto situato in una zona montuosa del Lesotho, dove circa metà della popolazione deve raggiungere le strutture sanitarie a piedi. Lo studio ha coinvolto individui che avevano ricevuto una diagnosi di HIV nell’ambito di una campagna di offerta di test e counselling a domicilio: i partecipanti sono stati randomizzati per ricevere una fornitura di antiretrovirali per 30 giorni lo stesso giorno della diagnosi oppure essere invitati a seguire la procedura standard, che consiste appunto nell’invio a un centro medico per ricevere la terapia antiretrovirale (ART).
Dei 441 adulti che sono risultati positivi al test HIV durante la campagna, 278 eleggibili per lo studio hanno accettato di prendervi parte. I partecipanti dovevano dichiarare di aver compreso cosa comporta iniziare una terapia che avrebbero dovuto proseguire a vita, come spiegato in un incontro di counselling a domicilio.
Quando la terapia veniva iniziata lo stesso giorno della diagnosi si è osservata una percentuale molto più elevata di pazienti presi in carico nell’arco dei tre mesi successivi (68,6% nel braccio di intervento contro 43,1% in quello di controllo). Non solo: è stata anche notevolmente più elevata la percentuale che raggiungeva la soppressione virale a 12 mesi dall’inizio delle terapie (50,4% nel braccio di intervento e 34,3% in quello di controllo).
Circa il 30% dei partecipanti di ambo i bracci dello studio non si sono mai rivolti ai centri sanitari perché “avevano troppo da fare”; il 25% del braccio di intervento e il 30% di quello di controllo sono stati persi al follow-up; e il 10%, quando sono stati rintracciati da un operatore sanitario, hanno dichiarato di non avere capito che dovevano presentarsi.
Secondo il dott. Niklaus Labhardt dello Swiss Public Health Institute, questi risultati probabilmente possono valere, in generale, anche per altri contesti rurali dell’Africa sub-sahariana dove vengono attuati programmi per l’offerta a domicilio di test e interventi di counselling.
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Dolutegravir a doppia assunzione giornaliera e terapia antitubercolare
Un’analisi ad interim dello studio INSPIRING a 24 settimane ha mostrato che assumere dolutegravir due volte al giorno in combinazione con l’antitubercolare rifampicina è sia sicuro che efficace. Un risultato da cui sembra di poter affermare che il dolutegravir possa essere impiegato insieme alle terapie antitubercolari nel trattamento di prima linea.
Il dolutegravir è un farmaco raccomandato in alternativa all’efavirenz per il trattamento di prima linea nei paesi a basso e medio reddito; una compressa combinata contenente dolutegravir, tenofovir e lamivudina è stata immessa sul mercato nel 2017 al prezzo di 75 dollari. Sebbene il dolutegravir non abbia molte interazioni farmacologiche con altri principi attivi, da uno studio farmacocinetico è emerso che i suoi livelli ematici diminuiscono se assunto insieme alla rifampicina.
Quando il dolutegravir è stato autorizzato per l’immissione sul mercato, gli enti regolatori hanno raccomandato una doppia assunzione giornaliera quando assunto in combinazione con rifampicina, proprio per evitare questa interazione. Lo studio INSPIRING è stato appunto disegnato per appurare che questo dosaggio sia sicuro ed efficace.
Per questo studio randomizzato di fase 3a condotto in aperto sono stati reclutati 113 partecipanti, tutti che assumevano una terapia antitubercolare a base di rifampicina da almeno otto settimane e avevano una conta dei CD4 superiore alle 50 cellule/mm3.
I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere un regime antiretrovirale con assunzione di dolutegravir due volte al giorno oppure di efavirenz una sola volta al giorno. Dopo un minimo di due settimane dopo aver terminato il ciclo di trattamento antitubercolare, i membri del braccio del dolutegravir sarebbero potuti passare a un dosaggio monogiornaliero.
La conta mediana dei CD4 al basale era in entrambi i bracci di poco superiore alle 200 cellule/mm3, mentre la carica virale si attestava attorno a 5 log10 copie/ml.
Dopo 24 settimane aveva ottenuto l’abbattimento della carica virale l’81% dei partecipanti del braccio del dolutegravir e l’89% di quello dell’efavirenz: una differenza che sembra però per lo più imputabile a interruzioni dell’assunzione dei farmaci da parte dei partecipanti del braccio del dolutegravir per motivi non attribuibili alla terapia in sé.
Gli aumenti nella conta dei CD4 sono risultati paragonabile tra i due bracci (146 cellule/mm3 nel braccio del dolutegravir contro 93 cellule/mm3 in quello dell’efavirenz).
Hanno interrotto il trattamento a causa dell’insorgenza di effetti collaterali soltanto due partecipanti, entrambi appartenenti al braccio dell’efavirenz. Non si è invece registrata alcuna interruzione dovuta a effetti collaterali a carico del fegato. Anche il tasso di sindrome infiammatoria da immunoricostituzione (IRIS) è risultato basso (6% con il dolutegravir contro 9% con l’efavirenz).
Lo studio è ancora in corso, ma i ricercatori sono convinti che questi risultati intermedi vadano a sostegno dell’impiego di regimi a base di dolutegravir nei pazienti con coinfezione HIV/TB.
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CROI 2018 - Primo Bollettino

CROI 2018LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2018, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 4 al 7 marzo 2018.

 

 

 

 
PRIMO BOLLETTINO

Un anticorpo sperimentale con un agonista del TLR7 mantiene la soppressione virale nei primati
Con un trattamento a base di un anticorpo neutralizzante ad ampio spettro associato a un farmaco immunostimolante è stata ottenuta nei primati una remissione virale a lungo termine dopo la sospensione della terapia antiretrovirale (ART): sono i risultati di uno studio presentato alla 25° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2018) in corso questa settimana a Boston, Stati Uniti.
Lo studio è stato condotto su macachi rhesus infettati con un virus ibrido uomo-scimmia noto come SHIV. Durante la fase acuta dell’infezione agli animali si è iniziato a somministrare una combinazione di tre antiretrovirali; trascorsi due anni dal momento in cui avevano raggiunto la soppressione virale, è stato loro iniettato l’anticorpo neutralizzante ad ampio spettro PGT121 (cinque dosi, ogni due settimane) e l’agonista del TLR7 GS-9620 (dieci dosi, ogni due settimane), trattando invece un gruppo di controllo con un placebo. Quattro mesi dopo l’ultima infusione di PGT121 e GS-9620 è stata sospesa la somministrazione agli animali della ART.
PGT121 è appunto un anticorpo neutralizzante ad ampio spettro diretto contro la regione V3 della glicoproteina di rivestimento presente sull’involucro esterno sia dell’HIV che del SIV, o virus dell’immunodeficienza delle scimmie, un parente stretto dell’HIV che colpisce i primati. GS-9620 è invece un agonista del TLR7 in grado di stimolare i cosiddetti recettori toll-like presenti nelle cellule immunitarie, che giocano un ruolo chiave nella risposta immunitaria innata, essendo in grado di riconoscere i virus e far scattare le difese dell’organismo. Attivando il TLR7 si potenzia l’attività dei linfociti T, delle cellule natural killer e di altre cellule del sistema immunitario. Si tratta di una strategia terapeutica detta 'kick and kill', volta a riattivare le cellule infette latenti nei reservoir virali per poi coadiuvare farmacologicamente la risposta immunitaria dell’organismo allo scopo di distruggerle.
Il trattamento consente di ritardare considerevolmente e controllare il rebound virale dopo l’interruzione della somministrazione di antiretrovirali. I macachi del braccio di sperimentazione hanno mantenuto la carica virale irrilevabile senza l’ausilio di farmaci antiretrovirali per un periodo mediano di 112 giorni, e cinque degli undici animali così trattati erano ancora in soppressione virale dopo sei mesi.
Anche quando il virus è tornato rilevabile, i macachi del gruppo sperimentale presentavano comunque valori inferiori sia di carica virale al setpoint che di DNA nei linfonodi, rispetto a quelli del gruppo di controllo trattato con placebo: ciò sembrerebbe indicare che il reservoir virale si sia ridotto e che il sistema immunitario riesca a tenere maggiormente a bada il virus.
Si tratta della prima evidenza sperimentale di una strategia di cura in grado di attivare il controllo immunitario nei primati: ottenere risultati simili nell’uomo sarebbe un progresso enorme.
Il dott. Dan Barouch del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston ha commentato i risultati del proprio lavoro con grande cautela. Malgrado questo approccio si sia mostrato in grado di frenare il rebound virale per svariati mesi, ha sottolineato, non si può infatti escludere la possibilità che il virus sia ancora presente nell’organismo e si riattivi a mesi o magari anche anni di distanza. Neppure i più sensibili test diagnostici tra quelli attualmente disponibili riescono infatti a rilevare tutte le cellule virali latenti, ha spiegato il ricercatore.
Gilead Science sta attualmente lavorando a un primo trial di fase I per sperimentare questa combinazione farmacologica sull’uomo.
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Donne più a rischio di contrarre l’infezione da HIV in gravidanza e nel post-parto
Da un’analisi presentata a CROI 2018 emerge che le donne sono quasi tre volte più a rischio di contrarre l’infezione da HIV durante la gravidanza in confronto ad altri periodi della loro vita, e ben quattro volte di più durante i sei mesi successivi al parto.
Finora gli studi in merito sono stati inconclusivi: in una meta-analisi era stato rilevato che il rischio di contrarre l’HIV in gravidanza aumentava del 30%, ma secondo due degli studi in essa compresi questo rischio era quasi doppio, mentre altri non registravano alcun aumento del rischio.
Per questa nuova analisi sono stati presi in considerazione i dati di 2751 donne HIV-negative con partner maschio HIV-positivo che partecipavano a uno di due programmi per la prevenzione HIV, Partners in Prevention e Partners PrEP. Gli studi sono stati condotti in un totale di sette paesi africani.
Le donne avevano rapporti sessuali più o meno frequenti a seconda dei diversi stadi riproduttivi: in media, avevano più rapporti, e più rapporti non protetti, nel primo periodo della gravidanza rispetto a quando non erano incinte, mentre ne avevano meno a gravidanza più avanzata e nei sei mesi successivi al parto.
Durante il follow-up, 82 partecipanti hanno contratto l’HIV dal partner principale, con un’incidenza annuale dell’1,62%. I tassi grezzi di incidenza variavano a seconda dello stadio riproduttivo.
La dott.ssa Renee Heffron della University of Washington ha dunque calcolato il rischio di infezione da HIV per 1000 rapporti sessuali. Come caso di riferimento è stata presa una 25enne che non assumeva profilassi pre-esposizione (PrEP) e il cui partner aveva una carica virale di 10.000 copie/ml. Ecco le stime:

  • né in gravidanza né post-parto: 1,05 eventi di infezione ogni 1000 rapporti;
  • a inizio gravidanza (dalle 0 alle 13 settimane): 2,19 eventi di infezione ogni 1000 rapporti;
  • più avanti nella gravidanza (dalle 14 settimane al parto): 2,97 eventi di infezione ogni 1000 rapporti;
  • post-parto (fino a 6 mesi dopo il parto): 4,18 eventi di infezione ogni 1000 rapporti.

È possibile che la maggiore vulnerabilità all’HIV sia imputabile alle modificazioni ormonali che intervengono durante gravidanza e allattamento, ma serviranno ulteriori ricerche per comprendere secondo quali meccanismi. Si potrebbe raccomandare la PrEP nei periodi in cui le donne sono particolarmente esposte al rischio di contrarre l’infezione.
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Prevenzione TB, un mese di terapia combinata efficace quanto nove mesi di monoterapia
Un solo mese di trattamento con l’antibiotico rifapentina in combinazione con isoniazide è risultato efficace quanto il ciclo di nove mesi di monoterapia con isoniazide attualmente raccomandato per la prevenzione dell’insorgenza di tubercolosi (TB) in pazienti HIV-positivi: è quanto emerge da un ampio studio condotto a livello internazionale.
La terapia preventiva a base di isoniazide (IPT) è il trattamento raccomandato in molti paesi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per la prevenzione della tubercolosi nelle persone con HIV; eppure la copertura terapeutica a livello internazionale è estremamente carente. Una delle difficoltà più spesso citate che ostacolano l’ampliamento di questa copertura è la durata dei trattamenti, che può essere di sei o nove mesi, ma può anche arrivare a 36.
Lo studio A5279/BRIEF TB mirava a testare l’efficacia della terapia combinata con isoniazide e rifapentina assunta ogni giorno per un mese, contro una monoterapia con isoniazide assunta anch’essa ogni giorno ma per nove mesi. Eleggibili per il reclutamento in questo studio in aperto, multicentrico e randomizzato erano persone HIV-positive abitanti in zone con alti tassi di TB oppure risultate positive al test cutaneo della tubercolina.
A partecipare sono stati in totale 3000 individui provenienti da dieci diversi paesi, circa la metà dei quali donne, i due terzi neri, e metà in terapia antiretrovirale; la conta dei CD4 mediana era di 470 cellule/mm3, e un quinto dei partecipanti era reattivo al test cutaneo.
L’obiettivo dello studio era di verificare la non-inferiorità del regime combinato con isoniazide e rifapentina, e gli outcome primari erano infezione da TB attiva, decesso TB-correlato o decesso per altre cause.
Un endpoint primario dello studio è stato raggiunto da 32 partecipanti del braccio trattato con isoniazide/rifapentina e 33 di quelli trattati con la terapia profilattica standard con il solo isoniazide. Complessivamente, i tassi di incidenza si sono attestati rispettivamente allo 0,65 contro lo 0,67 per 100 persone-anno, il che comprova appunto la non inferiorità del ciclo più breve.
Il prof. Richard Chaisson della Johns Hopkins University di Baltimora ha affermato, durante il suo intervento alla Conferenza: “Questo ciclo di trattamento della durata di un solo mese potrebbe rappresentare una svolta per la prevenzione della TB nei pazienti HIV-positivi, perché combina due vantaggi: ha un’altissima probabilità di essere portato a termine e un’altissima probabilità di prevenire la tubercolosi.”
“Crediamo che si possa parlare di un risultato sufficientemente netto e sufficientemente rappresentativo da essere usato come base per la redazione di nuove linee guida.”
Restano tuttavia due grandi barriere alla sua implementazione su larga scala: i costi (72 dollari) e la disponibilità (una sola casa farmaceutica lo produce).
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Stati Uniti, alti i tassi di infezione HIV tra i giovani maschi gay e ispanici
Da uno studio statunitense dei dati relativi alle sequenze genetiche condotto in reti con tassi particolarmente alti di HIV è emerso che ad avere i tassi più elevati sono quei cluster in cui sono presenti più giovani maschi omosessuali – il che di per sé non era inatteso – ma anche più ispanici che neri. Potrebbe essere il segnale di un cambiamento delle caratteristiche demografiche dei gruppi più a rischio di infezione da HIV negli Stati Uniti.
I Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC) americani ormai analizzano di routine le sequenze genetiche dei ceppi di HIV nelle persone con una nuova diagnosi. L’analisi filogenetica serve a identificare i cosiddetti cluster di infezione – vale a dire gruppi di due o più persone con ceppi virali così simili che devono avere le stesse origini – in modo da individuare eventuali cluster insolitamente “attivi”, ossia dove le nuove infezioni sono frequenti.
Questo consente alle autorità sanitarie locali di intervenire, per esempio, offrendo la possibilità di eseguire il test, un aggancio alle cure o l’accesso alla profilassi pre-esposizione (PrEP).
Dall’analisi di 60 cluster in cui si erano registrate almeno cinque nuove diagnosi HIV nell’arco di 12 mesi, i CDC hanno riscontrato un tasso di trasmissione undici volte superiore alla media nazionale negli Stati Uniti (44 eventi di trasmissione per 100 persone-anni contro 4 eventi di trasmissione per 100 persone-anni).
In questi cluster si ritrovavano con più probabilità, rispetto a individui appartenenti ad altre fasce di popolazione rappresentate nel database dei CDC, sia uomini che fanno sesso con uomini (MSM) (83 contro 59%) che persone al di sotto dei 30 anni (70 contro 42%).
Il dato però forse più sorprendente è che gli appartenenti a questi cluster fossero più probabilmente ispanici (38 contro 27%) e meno probabilmente neri (31 contro 41%).
Questo fa pensare che stia iniziando a cambiare la composizione etnica dei gruppi più a rischio di contrarre l’HIV negli Stati Uniti. “Questi dati sembrano indicare che l’HIV si stia diffondendo molto rapidamente all’interno delle reti in cui sono presenti giovani MSM, soprattutto ispanici”, ha dichiarato Anne Marie France dei CDC alla Conferenza.
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Esame dei livelli di antiretrovirali nei capelli attendibile predittore di risposta al trattamento
Secondo uno studio presentato a CROI 2018, l’esame del livello di antiretrovirali in un campione di capelli sarebbe il più efficace predittore della risposta alle terapie anti-HIV.
È ben noto che l’aderenza al trattamento è un fattore chiave per il successo terapeutico, ma quantificare questa aderenza non è facile. Spesso le dichiarazioni dei pazienti non sono accurate, e anche l’analisi del sangue o delle urine può rilevare solo i livelli di farmaco presenti nei giorni immediatamente precedenti al test. Quindi magari un paziente può anche non seguire assiduamente la terapia ma assumere una dose in vista di una visita di controllo (si parla a tale proposito di ‘white coat effect’, o effetto del ‘camice bianco’).
L’esame dei livelli di farmaci nei capelli, che consiste nel semplice prelievo di un campione di capelli del paziente, riflette invece l’aderenza media nel corso del tempo.
Nello studio ACTG A5257 sono stati messi a confronto diversi regimi antiretrovirali, a base di atazanavir/ritonavir oppure darunavir/ritonavir o raltegravir, sempre in combinazione con emtricitabina e tenofovir disoproxil fumarato, in pazienti che iniziavano per la prima volta il trattamento. Sono stati prelevati campioni di capelli da 599 partecipanti nel corso di 2192 visite di controllo.
Per tutti e tre i regimi sono stati osservati risultati similari. Il tasso di fallimento virologico a due anni era del 3% per i partecipanti che presentavano livelli più alti di farmaco; saliva al 6% per quelli della fascia intermedia; e arrivava addirittura al 26% per quelli con i livelli più bassi.
Se anche il capello era trattato, tinto, lisciato o permanentato l’esame non ne risentiva, mentre se decolorato i risultati variavano leggermente. La correlazione tra aderenza dichiarata dal paziente e livelli misurati nei campioni di capelli è risultata debole.
Un altro studio ha invece indagato un approccio diverso alla misurazione dei livelli dei farmaci, mirato a individuare variazioni nell’andamento dell’aderenza del tempo paragonando i livelli delle porzioni di capello più vicine alla cute con quelle più lontane. Potrebbe essere un metodo promettente per monitorare la sieroconversione HIV negli individui che assumono la profilassi pre-esposizione (PrEP).
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Screening per la TB, offerta integrata riduce i decessi dei pazienti HIV+
Secondo quanto emerge da due ampi studi, lo screening per la tubercolosi (TB) con un assiduo follow-up dei casi di TB in pazienti che iniziano le terapie antiretrovirali (ART) e lo screening con esame delle urine per i pazienti HIV-positivi ospedalizzati possono ridurre considerevolmente il numero di decessi e aumentare i tassi di trattamento della TB tra le persone con HIV.
Lo studio XPRES, condotto in Botswana, è un riesame retrospettivo dei risultati ottenuti con la graduale sostituzione dell’analisi microscopica dello striscio con il test Xpert MTB/RIF per la diagnosi della tubercolosi: gli autori hanno tuttavia concluso che a fare la differenza è stata piuttosto l’offerta di un pacchetto di interventi integrati.
Nello studio sono state raffrontate tre tipologie di offerta di screening, scaglionandole nel tempo man mano che diveniva disponibile il test Xpert MTB/RIF: la metodologia diagnostica standard; la stessa metodologia standard ma con in più altri interventi come maggiore offerta di sostegno da parte del personale medico e la ricerca attiva dei pazienti che non si presentavano agli appuntamenti; e infine i due interventi precedenti ma con l’offerta del test Xpert MTB/RIF al posto del tradizionale striscio.
La mortalità a sei mesi (outcome primario) è risultata ridotta quando venivano offerti interventi aggiuntivi, ma era una riduzione che diveniva statisticamente rilevante solo per la terza tipologia di offerta. Gli autori hanno allora preso in considerazione la mortalità a 12 mesi, e qui è emersa una significativa riduzione del rischio di morte sia per la seconda tipologia (rapporto di rischio aggiustato 0,72) che per la terza (0,76), senza che ci fossero sostanziali differenze tra le due.
I ricercatori hanno quindi concluso che a fare la differenza non era tanto lo strumento diagnostico utilizzato, ma la componente umana. Nel breve termine, un test diagnostico veloce e sensibile può senz’altro dare buoni risultati, ma quello che è contato veramente è stato l’impegno degli operatori sanitari per diagnosticare i casi di TB e per mantenere i cura questi pazienti.
L’altro studio, denominato STAMP, è stato invece condotto in Sudafrica e Malawi, e ha confermato che l’esame del lipoarabinomannano (LAM) nelle urine migliora i tassi di diagnosi e trattamento della tubercolosi e riduce la mortalità in pazienti in ART ospedalizzati.
In un paziente con una patologia HIV-correlata in stadio avanzato può essere difficoltoso giungere a una diagnosi certa della tubercolosi attiva, e spesso si rende necessario ricorrere all’esame colturale. L’esame del LAM nelle urine può velocizzare la diagnosi e il suo impiego ha mostrato di ridurre il rischio di morte nei pazienti HIV-positivi ospedalizzati con conte dei CD4 inferiori alle 100 cellule/mm3. Non si sapeva invece se questa metodologia diagnostica potesse rappresentare un valore aggiunto in quei contesti dov’è disponibile il test Xpert MTB/RIF.
Per lo studio sono stati reclutati pazienti HIV-positivi ospedalizzati che sono stati randomizzati in due bracci, quello del test standard (esame dell’espettorato con Xpert MTB/RIF) e quello di intervento (esame dell’espettorato con Xpert MTB/RIF ed esame del LAM nelle urine e Xpert MTB/RIF).
Complessivamente, la mortalità a 56 giorni (outcome primario) è stata del 21,1% nel braccio del test standard e del 18,3% nel braccio di intervento, anche se si tratta di una differenza poco rilevante in termini statistici (p = 0,07). Una riduzione statisticamente rilevante in termini di mortalità è stata invece osservata negli individui con conte dei CD4 inferiori alle 100 cellule/mm3, con valori basali di emoglobina sotto gli 8 g/dl oppure con sospetta infezione da TB al momento del ricovero.
I partecipanti del braccio di intervento avevano maggiori probabilità di ricevere una diagnosi e un trattamento per la tubercolosi.
I risultati di questo studio, hanno concluso gli autori, vanno a sostegno dell’ampliamento dei programmi di screening della TB con esame delle urine per tutti i pazienti HIV-positivi ospedalizzati.
Link collegati
Resoconto completo su aidsmap.com 
Webcast dell’intervento in cui è stato presentato lo studio XPRES sul sito ufficiale della Conferenza 
Webcast dell’intervento in cui è stato presentato lo studio STAMP sul sito ufficiale della Conferenza 


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